Nonostante l’autore del presente articolo non sia affatto un buddhista, ma forse proprio per questo, la sua spiegazione della più nobile tra le arti introspettive – di origine essenzialmente orientale – è davvero ammirevole. Sia i neofiti che i lettori più adusi alla meditazione, così come spiegata e introdotta da tali antichissime tradizioni spirituali, possono trarne sicuramente un profittevole vantaggio. Io stesso, che – nella mia umile veste di blogger – sono abbastanza aduso a codeste impareggiabili letture, sono rimasto sorpreso dalla chiarezza e della precisione offerte da Michael Fuss. L’autore, con una sintesi semplicemente efficace, descrive o – dipende dai punti di vista – introduce, per l’appunto, gli elementi più essenziali della meditazione di matrice buddhista tracciando anche un breve rapido parallelo con alcune concezioni della tradizione giudeo-cristiana.
«L’antica tradizione buddhista fa riferimento a due forme di meditazione. La prima, comune a molte altre tradizioni ed ereditata dal Buddha dalle pratiche dei suoi primi maestri nella foresta indiana, è la concentrazione (samadhi), ossia la fissazione dell’attenzione su un oggetto visivo o mentale. La mente non distratta raggiunge gradualmente uno stato di tranquillità interiore (samatha), pre-condizione necessaria per sintonizzare la coscienza con la sapienza del nirvana che non sarebbe altro che l’intuizione della realtà in sé, senza alcun offuscamento o impedimento:
Il Beato parlò: «O monaci, la concentrazione mentale sviluppate. Colui che è concentrato conosce le cose come sono realmente». (Milindapanha, II, 13)
Per motivi metodologici si potrebbero distinguere i due modi di concentrazione terrena e ultra-terrena (spirituale); in realtà essi puntano all’unica consapevolezza dell’assoluta gratuità della chiara visione. La concentrazione non è acquisizione umana, ma una liberazione che si attua da sola:
Vi dico, o monaci, che ci sono due modi della retta visione: la convinzione che sia propizio dare elemosine e offerte, che le azioni, siano buone o malvagie, porteranno frutto e saranno seguite da risultati… questa, o monaci, è una visione che, pur soggetta a imperfezioni, è meritevole, comporta frutti terreni e produce risultati buoni. Ma, al contrario, tutto quanto collegato con la saggezza, con la penetrazione, con la retta visione in connessione con il Sentiero – percorrendo l’augusto Sentiero –, questo viene chiamato la vera visione ultra-terrena, che non è di questo mondo, ma al di sopra di questo mondo e connessa con il Sentiero. (Majjhima-nikāya, III, 72)
Questi e altri testi canonici determinano il sottile discernimento spirituale tra azioni meritevoli e l’assoluta gratuità della saggezza che non è da considerare minimamente un risultato dell’ascesi. Varie volte il Buddha esorta i suoi discepoli ricordando che la propria illuminazione non è da considerare in connessione con i più sublimi stati di estasi, ma come una gratuità inspiegabile che si concede all’improvviso.
Lo stesso vale ancora di più per la seconda forma di meditazione, la prassi della presenza mentale (vipassana), sviluppata e praticata personalmente dal Buddha:
In questo corpo della misura di un braccio, fornito di percezione e di mente, io indico il mondo, l’origine del mondo e la via che conduce alla dissoluzione del mondo. (Samyutta nikāya)
Con l’osservazione attenta dei propri processi psico-somatici la persona raggiunge un’auto-coscienza che rompe con l’illusione di un’individualità ben circoscritta. In realtà, l’individuo si ritrova nella più universale interdipendenza di tutti gli elementi, e quello che si trova nel corpo, è identico a tutta la realtà.
Senza una posizione meditativa formale, bisogna prestare «attenzione» a qualsiasi evenienza della propria vita osservandone le condizioni e conseguenze. Il manuale canonico del Mahasattipatthana Suttanta indica quattro campi di minuziosa analisi, a partire dal corpo fisico:
Un monaco che vada o che venga… che mangi o beva, che mastichi o che gusti, che si vuoti di feci o di urina, che stia, sieda, si addormenti o si svegli, egli realizza ciò che fa.
Più sottile è l’esame attento delle sensazioni e processi mentali:
«Sperimento una sensazione piacevole». …Il monaco dimora osservando il sorgere ed il trapassare degli elementi nella sensazione. – Con mente passionale realizza: «La mente è passionale… Così è la mente», e pertanto in lui questa consapevolezza è di fondamento, perché a lui è base di sapere, è base di più alta consapevolezza. Ed egli vive libero…
Infine, vanno analizzate le disposizioni psicologiche e spirituali, le più sublimi forme di attaccamento al mondo o al proprio egoismo, dando seguito alla coltivazione di virtù altruiste nonché alla penetrazione interiore («gustare») delle «quattro nobili verità».
Questo cammino purificativo verso una piena consapevolezza della relatività della propria esistenza ha come scopo la distruzione della pur minima idea di un elemento permanente o costitutivo di individualità. Tutto, la propria personalità inclusa, si trova in continuo cambiamento, essendo passivamente soggetto del nascere e scomparire di cause ed effetti (karma). Mentre i condizionamenti psicofisici si annullano, irrompe il risveglio a una beatitudine indicibile, non più causata, ma liberamente infusa nella mente: l’illuminazione:
Come un uomo che introduce una lampada in una casa buia e la lampada introdotta disperde il buio, produce chiarezza, fa apparire la luce e rende nitide le forme delle cose, così quando la comprensione nasce essa disperde il buio dell’ignoranza, produce la chiarezza di chiara conoscenza, fa apparire la luce della conoscenza e rende chiare le nobili verità. Allora colui che attua la meditazione vede attraverso la giusta comprensione l’impermanenza, il dolore e il non-sé (anicca – dukkha – anatta). Così, l’illuminazione è un segno distintivo della comprensione. (Milindapanha, II, 14)
A questo punto si rivela l’antropologia buddhista che sta alla base delle pratiche spirituali. Con l’impermanenza (anicca), sofferenza-frustrazione (dukkha), non-sé (anatta) il Buddha, sempre parlando in chiave soteriologica, ha identificato tre caratteristiche fondamentali (tilakhana) dell’uomo che convergono nell’affermare, da diverse angolature, la precarietà e provvisorietà della vita. Prendendo una analogia dalla terminologia giudeo-cristiana, più familiare agli occidentali, si potrebbe parlare della creaturalità, cioè del non-autopossesso dell’uomo, in quanto questi è la realtà fondamentale profondamente insita in ogni esperienza umana, ma raramente presente in modo esplicito nelle vicende quotidiane. La meditazione vipassana intende accompagnare la persona fino alla piena consapevolezza che la vita è in continuo mutamento, dolorosa, non autonoma. Non si trova quindi un nucleo fisso della personalità che sarebbe eterno o libero da imperfezioni e sofferenze. Diventando consapevole della propria creaturalità, l’uomo giudeo-cristiano riconosce il Creatore facendo ricorso alla continuità dell’opera creativa, mentre il buddhista, non varcando la soglia della trascendenza, spiega la gratuità della vita con l’interdipendenza di tutte le forme d’esistenza e la legge del karma. Nonostante le differenze essenziali su questa profondità mistica, rimane terreno comune la ferma convinzione che l’uomo non è padrone di sé stesso e quindi ogni attaccamento a un egoismo sarebbe contrario alla sua vera natura.
Su questa base si raggiunge lo stato di arahat («santo»), nel Theravada, o del bodhisattva («essere in via di illuminazione»), secondo il Mahayana. Comune alle due figure di persona realizzata sono, quasi come stati di estasi mistica, le «dimore celesti» (brahmavihara) delle quattro virtù altruiste. La coltivazione di amore (metta), compassione (karuna), simpatia (mudita), equanimità (upekkha) verso tutti gli esseri procura una nuova «dimora» etico-spirituale a chi ha lasciato la casa delle vecchie abitudini. La preghiera del Metta-sutta, «siano felici tutti gli esseri, abbiano pace e siano di animo lieto», esprime un contesto universale di benevolenza a cui l’individuo si conforma con il proprio impegno. Da questo spirito sereno di misericordia è nato il movimento dei «buddhisti impegnati» per un’autentica promozione umana, formativa e sociale di fronte ai conflitti del nostro tempo. Collegando i brahmavihara con l’impegno concreto, il noto monaco Thich Nhat Hanh (1926-) ha fondato il suo movimento «inter-essere» per giovani europei, rivelando che l’altruismo buddhista non si poggia su una rivelazione divina ma sull’interdipendenza degli esseri la cui trama viene vivificata non dagli egoismi, ma dalla reciproca compassione.»
(Dall’articolo: “Il sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza. Tecniche meditative e pratiche ascetiche” di Michael Fuss)
Michael Fuss è professore di Buddhismo e Nuovi movimenti religiosi presso la Pontificia Università Gregoriana, è anche Docente di Teologia delle religioni presso la Pontificia Università s. Tommaso d’Aquino (Angelicum), e di Storia delle religioni presso la Pontificia Università Lateranense di Roma. Tra le sue pubblicazioni: Buddhavacana and Dei Verbum, E.J. Brill, Leiden 1991; Le grandi figure del buddhismo, Cittadella, Assisi 1996; Rethinking New Religious Movements, PUG, Roma 1998.