Qui non c’è un set di credenze religiose personali. Non c’è un pacchetto prefabbricato distribuito ad hoc per la salvezza – economica – dei suoi divulgatori. Non v’è alcuna gamma di opzioni finalizzata al formarsi di qualsivoglia opinione religiosa. Nessuna composizione teologica di frammenti spirituali. Alcun finto moralismo. Qui v’è solo ricerca e relativa sperimentazione.
Meditazione con oggetto
Trovo particolarmente significativa la distinzione tra riflessione e meditazione. Uno tra i più diffusi luoghi comuni della cultura occidentale induce a credere che la meditazione sia una sorta d’approfondimento riflessivo. La maggior parte di coloro con cui mi è capitato di discutere consideravano la meditazione come una riflessione ponderata. Nulla di più banale. Che la meditazione abbia un oggetto o meno è secondario. Il fine che mi propongo ora non è sceverarne l’ambito, ma comprenderne il meccanismo.
Innanzitutto bisogna individuare un determinato oggetto su cui soffermarsi. O se preferite un oggetto da contemplare. La caratteristica essenziale è che sia circoscritto, facilmente richiamabile e, ovviamente, particolarmente significativo. Pregno, cioè, di contenuti e valori che travalicano gli angusti contesti culturali per assurgere, eventualmente, a simbolo universale. Naturalmente deve attrarre. Ancora, è importante che le sue peculiarità esemplificative brillino così tanto di luce propria da lenire, sia pur temporaneamente, il singolo disagio esistenziale. E’ senz’altro utile che elevi verso uno stato di coscienza cristallino.
Meditazione senza oggetto
Cos’è che emerge dai più profondi meandri della propria coscienza? Per quanto ne dipani l’intricata matassa, non trovo altro che una fitta rete d’inesplicabili connessioni. Si tratta di nodi così interrelati da renderne vana la benché minima rappresentazione.
Bene, chiudi gli occhi, osservi te stesso e vedi fluire pensieri, sensazioni, stati d’animo. Percepisci il respiro. Talvolta ti capita d’avvertire il battito del cuore. Può darsi che ti senta entusiasta. Lì per lì ti esalti. Oppure futile, depresso/a, ma minimizzi. Cominci a comprendere che se riesci a osservare questa sfilza infinita di formazioni mentali, tu sei solo colui/lei che le subisce. Non puoi più identificarti con la tristezza, con la mestizia, tanto meno con l’allegria.
Qui stiamo citando gli stati della coscienza ordinaria. Per affrontare situazioni patologiche servirebbe ben altro, sorvoliamo.
Ebbene, quando l’infinita sequela si dispiega, cosa rimane? Resta il nucleo, che tuttavia è inconoscibile. Inconoscibile, amore. Al centro dell’essere v’è proprio l’amore.
Ricondursi alla vetta
Il mondo della coscienza è costellato d’innumerevoli periferie. Là risiede abitualmente l’identità superficiale detta ego. Quella del nome patria e famiglia. Là si svolgono le guerre. Piccoli e grandi conflitti, ammessi razionalmente in nome della sopravvivenza, ma che indicano solo una sorta d’istinto dell’annientamento. Vi sembra strano? Dovunque sussista pulsione per la vita, si manifesta pure una tensione che implica un coinvolgimento tale da includerne la relativa quiescenza conclusiva, la fine, la morte. Quella degli altri, ovviamente. Come per la celebrazione di un antico rito tribale che esorcizza la paura dell’imminenza, la guerra sterilizza l’inconscio respingendo all’indietro gli immaginari fantasmi del terrore.
In passato si supponeva che per evitare la guerra periferica, esteriore, avremmo dovuto viverla e vincerla interiormente. Oggi si da più credito all’idea che per contrastarla bisognerebbe inebriarsi soprattutto della pace interiore. Dissetare l’arsura esistenziale bevendo alla fonte dell’essenza. Taluni ritengono che sia necessario meditare. Ovvero disidentificarsi temporaneamente dal continuum spazio temporale ed offrirsi all’estatica ebbrezza di accogliere la divinità. Talaltri credono che bisogna comunque percorrere sino in fondo un’imperscrutabile itinerario esperienziale. In realtà mi rendo conto che la distinzione tra centro e periferia è solo una questione di mero opportunismo. Non v’è periferia che non sia anche centro di se stessi. E viceversa.
La pienezza dell’assenza di conflitti corrisponde al vertice della propria piramide esistenziale. All’apice della coscienza. All’evento simboleggiato con lo schiudersi del loto dai mille petali. Per essere in pace bisogna innanzitutto ricondursi alla vetta.
Epilogo
La grigia e plumbea coltre che occupa caparbiamente ciò che una volta era abituale dimora di luce del chiaro, limpido, azzurro e cristallino empireo, non si schioda più nemmeno a pregarla. Rimane lì, fissa, immobile, pensosa, ottundente. Di fatto preclude persino la speranza. Taluni affermano sia lo scontato risultato del global worming. In modo più semplice, ce la siamo proprio cercata.
Perché non ti decidi? Ti aggrappi – strenuamente – ad uno status quo che non potrà durare. Procrastini. Temi l’ignoto? Può darsi che ti senta vincolato dall’abitudine. Mentre la consuetudine genera il viatico per continuare a fingere, ti crogioli nell’orgoglio, finché le parvenze non sfumeranno infine nel grigiore, umido e nebbioso, di uno stanco e anonimo mattino. Ma le albe sono sempre chiare. Non v’è aurora che non frema di vita che risorge. Dov’è l’ostacolo? Il problema è che hai paura di lottare. Anche se ami non realizzi nulla finché non anteponi il coraggio di essere a tutto il resto.
Ora getta le maschere, non ti servono più. Se non fingi, persino la notte ti sembra brillare d’una vivida luce che emerge dal nulla. Se ne ricerchi ostinatamente la fonte t’incammini verso l’essenza dell’uno. Rivolgiti al Principio. Abbandona – temporaneamente – i dettagli. Il gong del sempiterno è un suono senza suono. Ora il mattino è divenuto arioso …