«La meditazione non consiste nel meditare su qualcosa, ma trattare la mente come se non vi appartenesse. (Sokei-an)»
Il tono dell’articolo è interlocutorio. Innanzitutto due brevi premesse, poi le nostre conclusioni.
Se manipoli la mente, ad esempio con la concentrazione intensa e protratta su un determinato punto interno, non consegui (subito) la meditazione (vera e propria), ma solo uno stato di coscienza relativamente alterato. Apparentemente diverso è il caso in cui il punto su cui converge il tuo focus sia esterno, perchè – in linea di massima – la consapevolezza, invece di creare un vortice, si espande.
Se contempli la fiamma di una candela, come il tuo amato o la tua amata, ossia un’immagine o un’icona che ritieni sacra, quindi un paesaggio, l’orizzonte o il mare, i pericoli di creare tensioni eccessive sono davvero pochi. Lo stesso con la ripetizione di un mantra, la recitazione di una determinata preghiera. Per inciso, quando, ad esempio, si osserva il respiro è preferibile notare il punto di contatto dell’aria con il corpo che seguirlo dappresso. In sintesi, la consapevolezza verso la propria interiorità dev’essere spontanea, non si può forzare se non con il rischio d’incorrere in rapimenti estatici pressoché imprevedibili.
Quindi, come regolarsi? Le modalità sono tante. Osserva, nello specifico, i pensieri che ti sovvengono come se non ti appartenessero. Il silenzio, la calma, si faranno strada da soli e ti ritroverai rilassato e, nel contempo, vigile. I pensieri sono solo nubi che attraversano il cielo-mente. Via via che si dissolvono – da sé – subentra la chiarezza. L’esercizio consiste nel prendere atto di quei pensieri e di trattarli come se non ti appartenessero.