Come mai – in questo ambito – la meditazione viene definita un’arte e non un ordinario approccio scientifico? Quando ci si affida esclusivamente alla tecnica, ossia al metodo – sovente pressoché meccanico – per rilassarsi ed esperire qualcheduno dei cosiddetti benefici che oramai si decantano a ogni piè sospinto – si corre il rischio di rimanere delusi. Ci si identifica col metodo creando una nuova, estemporanea, dipendenza. Il metodo diventa cioè un succedaneo psicologico della realizzazione medesima, un ostacolo invece che un trampolino di lancio. Sia chiaro, la tecnica è importante anche per l’arte. Altrimenti con quale criterio principiare e approssimarsi a eseguire determinate performance artistiche, esecuzioni così eleganti e di buon gusto da rievocare – chiamare in causa, celebrare – lo spirito delle più alte vette di coscienza? Questa sorta di spirito si rivela via via come essenza. Nel contempo la ricerca si trasforma quindi nella mente che si pone la domanda: chi è consapevole? Bene, ma cos’è, a questi livelli di comprensione, la mente? E’ l’ego, ovvero l’impulso all’egocentrismo. Non credere che la consapevolezza sia un requisito o un modus di porsi e, pertanto, un raggiungimento. La consapevolezza è come il contesto, fuggevole quanto imperituro, impermanente quanto persistente, discontinuo quanto duraturo … Concentriamoci, ora, nella lettura di Ajahn Munindo …
«Credo che molti di noi abbiano letto in questi ultimi tempi qualche articolo scientifico che parla dei benefici della meditazione. La ricerca sugli effetti della pratica meditativa sul cervello ha prodotto evidenze di grandi giovamenti, ma mi sono anche imbattuto in articoli che screditano e non incoraggiano a seguire la meditazione buddhista. Alcuni di coloro che hanno provato a meditare, e che dopo un po’ hanno smesso, sostengono che può essere del tutto inutile, addirittura pericoloso e forse anche autodistruttivo. Queste affermazioni non provengono necessariamente da persone che non abbiano provato in modo serio, che, ad esempio, hanno fatto solo un corso di vipassanā in India prima di smettere, di rinunciarvi. A volte vengono da persone che si sono applicate intensamente alla meditazione per anni, ma che poi alla fine sono diventate disilluse.
Non sono particolarmente sorpreso di ciò. Come abate di un monastero mi trovo spesso ad ascoltare molte descrizioni su come le persone praticano e su quali sono i loro risultati. Quando incontriamo per la prima volta questi insegnamenti, essi ci prospettano e ci offrono non tanto qualcosa in cui credere, ma qualcosa che possiamo veramente fare riguardo alla nostra coscienza, e questo ci dà una speranza. Così ci accingiamo all’esperienza della meditazione con entusiasmo, fiducia ed energia. Ci caliamo interamente nella pratica e forse otteniamo qualche risultato. E poi cosa facciamo? Quando abbiamo avuto una qualche esperienza, in particolar modo qualche tipo di esperienza “speciale”, è facile attaccarsi a questo ricordo. Se è stata piacevole possiamo cercare di volerla ripetere. Se non è stata piacevole possiamo ancora attaccarci al ricordo, nel timore che quel tipo di esperienza si possa ripetere.
Talvolta il modo in cui la meditazione viene insegnata dà troppa enfasi alla tecnica. E attaccarsi alla tecnica può condurre all’attaccamento ai risultati. All’inizio impariamo dalle tecniche. Ma l’idea che questo sia tutto quello che ci vuole per meditare è veramente uno spiacevole errore. Mi ci è voluto tanto tempo per rendermi conto che per me un approccio tecnico non funzionava proprio. Alla fine mi accorsi di quanto fossi assorto in pensieri riguardo alla “forma” della pratica e che stavo perdendo il contatto con lo “spirito” della pratica. Il punto centrale della pratica, il suo spirito, è di approfondire comprensione e agio. Preoccuparsi degli stadi da raggiungere e delle abilità da realizzare produceva rigidità del cuore e della mente. Se mi veniva l’idea che c’era qualcosa di sbagliato in me e che queste tecniche lo avrebbero aggiustato e messo a posto, l’attenzione diventava esclusiva e limitante. Ciò dava nutrimento alla mente che vuole ottenere e la conseguente idea di non essere mai abbastanza buono, di avere sempre qualcos’altro da conseguire.
Il modo in cui prendiamo le tecniche determina il modo in cui ci relazioniamo all’esperienza. Dare troppa enfasi alle forme può portare a un maggiore e non a un minore attaccamento. In Occidente, con la nostra forte attitudine volitiva verso la vita, questo aspetto può essere particolarmente pronunciato. Non tutti nel mondo vedono la vita come noi. In Asia le persone sono generalmente più rilassate e fiduciose. Nella loro cultura, il mistero, il mito e la fede sono ancora importanti. Nella nostra cultura tendiamo a non fidarci di niente, ci hanno insegnato a dubitare e a diffidare. Questo, naturalmente, ha dei lati positivi, ma ha anche delle limitazioni. Il “mito” è diventato sinonimo di “falsità”, i rituali sono per i popoli primitivi. Dobbiamo però stare attenti a non portare queste nostre premeditate tendenze manipolative negli aspetti più importanti della nostra vita. Una buona salute, delle relazioni cordiali, denaro, cibo e un buon alloggio, sono tutte cose importanti, ma quando arriva il momento della morte la cosa più importante sarà lo stato della nostra coscienza. Perciò il modo in cui ci accingiamo a compiere la nostra esplorazione interiore è davvero importante e per farlo non siamo obbligati ad assumere un approccio orientato alla tecnica.
Ho scoperto che la vita contemplativa può essere meglio descritta come un esercizio di tipo artistico. All’inizio abbiamo bisogno di imparare le abilità che sono richieste da una certa forma d’arte, per esempio suonare uno strumento musicale. Inevitabilmente applicarsi con costanza a queste tecniche può essere noioso, perché per diventare esperti c’è bisogno della ripetizione. Per suonare il violino dobbiamo prima imparare come muovere le dita e come tenere il polso. Se non teniamo lo strumento correttamente, ci precludiamo molte belle possibilità. Per imparare a suonare uno strumento, usare l’espressione della pittura o adoperare una macchina fotografica, si richiedono ore ed ore di esercizio. Ma una volta che abbiamo interiorizzato queste tecniche, allora possiamo lasciare fluire lo spirito dell’artista.
Penso che per la meditazione sia la stessa cosa. Se ritenete di non avere un temperamento artistico, forse potreste considerare il tutto in termini di essere agili. Uno degli insegnanti di Ajahn Chah era solito dire: se gli ostacoli vi appaiono alti, chinatevi al di sotto di essi, se vi appaiono bassi, superateli d’un salto. L’agilità è essenziale. Se sentiamo di dover aderire solamente a ciò che il nostro amato insegnante ci ha insegnato all’inizio, potremmo non fare alcun progresso. Potremmo scoprire che ci manca la creatività necessaria per far fronte ai complicati ostacoli che incontreremo. Inesauribile rispetto e gratitudine nei confronti di coloro che ci hanno aiutato a cominciare, vanno bene; ma è necessario anche provare ad addentrarsi in ciò che è sconosciuto, con l’interesse a scoprire qualcosa di nuovo.
Così, forse, gli autori di questi articoli sui pericoli della meditazione non si sono dati la possibilità di fare esperimenti con la loro pratica. Forse hanno pensato che la pratica fosse tutta in una sola tecnica. Ma il fatto che un insegnante rispettato o una tradizione ci dicano che cosa dovremmo fare, non significa che essi sappiano veramente che cosa va bene per noi. Ciò di cui c’è bisogno è di localizzare quella “terra di mezzo” dove possiamo ascoltare con rispetto gli insegnamenti dati da una certa tradizione, ma al tempo stesso poter ascoltare noi stessi. La via di mezzo: non aggrapparsi ai nostri propri modi di fare le cose, e non aggrapparsi nemmeno al modo dell’insegnante di vedere le cose, ma studiarli entrambi.
All’inizio della pratica avevo avuto delle esperienze estremamente piacevoli concentrandomi sul respiro e lasciandomi cadere in stati di profonda delizia. Ma questi stati mi aiutavano veramente a far fronte agli ostacoli che io, con quel mio carattere disilluso e confuso, mi trovavo ad affrontare? Solo fino a un certo punto, e poi fallivano miseramente. Sospetto che questo accada a molte persone: arrivano a un punto in cui sentono che stanno sbattendo la testa contro un muro. Vorrei incoraggiare tutti quanti noi ad ascoltare più attentamente il nostro intuito. Ci applichiamo a ciò che viene dall’esterno: libri, insegnanti, tradizioni; ma diamoci anche l’opportunità di sentire e di ascoltare ciò che viene da dentro di noi. Non sto sostenendo di aggrapparsi all’idea che il “mio unico e fantastico” approccio sia assolutamente “la via”, ma nemmeno di assumere che non sia rilevante.
Durante il mio primo ritiro di meditazione l’insegnante ci insegnava ānāpānasati, la consapevolezza del respiro in posizione seduta, e anche la meditazione camminata. Mi ricordo come al terzo giorno di quel ritiro sorse una meravigliosa esperienza, una improvvisa percezione di pace interiore, di calma interiore. C’era solo quiete e tranquillità, come non avevo mai sperimentato prima. Mi trovavo in campagna, camminando su e giù su una strada di ghiaia, in una remota località dell’Australia chiamata Nimbin. Insieme a questa percezione c’era una voce da dentro – quel chiacchierone a cui piace avere un’opinione su tutto – che diceva: “C’è solo consapevolezza”, o forse diceva: “C’è solo il conoscere”. Subito dopo seguì una domanda: “Ma chi è consapevole?”. A quel punto la mente si lasciò cadere in un luogo ancor più profondo, e anche più incantevole. Non mi ricordo come riportai la cosa all’insegnante, ma lui non sembrò apprezzarla particolarmente come una chiave utile per sbloccare la mia pratica. A dire il vero, c’è voluto tanto tempo e un sacco di fatica prima che riconoscessi quell’esperienza per quello che era.
Il porsi domande in modo conscio come forma di meditazione non è qualcosa di nuovo. Molte persone lo usano come un modo di indirizzare la loro indagine e di percorrere il proprio viaggio interiore. Farsi la domanda giusta, la nostra propria domanda, è una parte importante della pratica. Ci sono momenti in cui la concentrazione su un oggetto di meditazione è una cosa piacevole e conveniente da fare. Ma forse dovremmo considerarla come faceva Ajahn Thate (1). Egli era solito dire ai monaci che entrare nel samādhi [unificazione mentale] era per loro come andare in vacanza; e li incoraggiava a farlo. Ma una vacanza è una vacanza, non è il lavoro vero.
Una delle cose più interessanti che faccio è pormi domande come: “Chi è consapevole?”. È piacevole pensare ai piani architettonici di sviluppo del monastero, ma il lavoro più prezioso è farsi domande interiori del tipo: “Chi?”; “Chi è che fa questa domanda?”. Questa è una questione estremamente importante, se viene posta nel modo giusto e non perché io stesso o qualcun altro vi abbia chiesto di farlo.
La mente desidera porsi domande come questa. Molte persone vedono la propria mente come un nemico. Tutto quello che vogliono fare è farla tacere, così si concentrano, si concentrano e si concentrano, in cerca della pace. È vero che il calmare la mente e la concentrazione fanno parte della pratica, ma sono solo una parte di essa. Ci sono anche altri aspetti. Forse è possibile fare amicizia con la propria mente. La vostra amica mente potrebbe veramente voler condividere con voi questo viaggio e avere dei validi contributi da apportare.
Ci sono tradizioni contemplative in cui gli insegnanti incoraggiano specificamente a porsi domande. Di nuovo, dobbiamo stare attenti a che questo non si trasformi in un’altra tecnica applicata in modo meccanico e superficiale. Posta nel modo giusto, al momento giusto e con la giusta direzione, la domanda intuitiva che viene dal cuore comincerà a sciogliere gli intricati fili della nostra contratta egoità. Il Maestro Hsu Yun (2), grande insegnante cinese di meditazione Chan, usava la tecnica di chiedersi “Chi?”, chiamata in cinese hua-tou, la pratica della domanda profonda. Quando Ajahn Fun, un discepolo di Ajahn Mun (3), durante la sua pratica fu preso dalla paura, andò a chiedere consiglio ad Ajahn Mun, e lui non gli rispose semplicemente: “Vai e concentrati sul respiro”, ma gli chiese “Chi ha paura?”.
Ricordiamoci che non ci si deve aggrappare a queste “indicazioni” tracciate sul sentiero. Se ci si attacca, diventeranno esse stesse costruzioni illusorie dell’ego in cui cerchiamo ancora una volta di rifugiarci. Non aggrappatevi all’idea di porvi la domanda: “Chi?”. Non è la mente stessa a essere il problema; ciò con cui abbiamo bisogno di confrontarci è l’ego illusorio, l’egocentrismo. Questo è il nostro problema; tutta la nostra energia viene assorbita e inghiottita da questo costrutto. E quindi come liberiamo questa energia, e come invece la perdiamo? C’è sicuramente un certo stadio della pratica in cui è necessario imparare a raccogliere la mente, unificarla in una condizione di stabilità. Questo è un aspetto del nostro addestramento, ma dobbiamo portarlo fino in fondo? Non necessariamente, e soprattutto non è sempre valido per ognuno di noi. Alcune persone possono portare questa forma di meditazione fino al suo apice, e mi è stato detto che agli ultimi stadi della pratica, al momento giusto, si pongono degli interrogativi molto sottili, e a quel punto l’intero groviglio si sbroglia e trovano la libertà che stavano cercando. Ma non per tutti è così. Anzi, sospetto che questa non sia la strada giusta per molti di noi.
Possiamo prendere in considerazione il fatto che forse la nostra mente non è il nostro nemico. Forse non abbiamo bisogno di dirle di tacere per tutto il tempo. Forse possiamo diventare suoi amici e ascoltarla. I cristiani dicono: “Chiedi e ti sarà dato”. Quando ero cristiano ero solito chiedere in continuazione, senza però ottenere le risposte che stavo cercando. Solo anni dopo incontrai un monaco cristiano che mi fece notare che è importante il come si chiede. Se non stiamo chiedendo in modo giusto, non otterremo la risposta giusta.
Se nel nostro viaggio interiore siamo fortunati, potremmo scoprire da soli la nostra domanda personale che riesce a districarci, a toglierci dal groviglio della confusione, ma dobbiamo prestare attenzione al tipo di energia che guida questo nostro domandare. Le nostre domande devono essere accompagnate da un umile riconoscimento del fatto che non sappiamo, dal nostro non sapere. Ho un chiaro ricordo del mio primo anno di meditazione, quando usavo questa pratica del pormi domande ma la usavo come una mazza per colpire un nemico. Non funzionava molto. In realtà, non mi aiutava per niente – finì che mi ammalai. Abbiamo bisogno di porre le nostre domande con gentilezza, con rispetto, come se stessimo parlando al Buddha. Come parleremmo al Buddha se lo incontrassimo, se gli volessimo fare una domanda?
Mi piace anche riflettere su una questione che sollevò una volta Ajahn Chah. Alcuni giovani monaci stavano parlando con lui a proposito della cosiddetta Mente Originaria. Egli fece presente che se trasformate la Mente Originaria in qualcosa, quella non è più la vera Mente Originaria. Se là c’è qualcosa, qualsiasi cosa essa sia, semplicemente sbarazzatevene. Potete chiamarla la Mente Originaria, se volete, ma il termine, il concetto di “mente originaria”, non è ciò a cui ci stiamo rivolgendo. Ciò che è veramente originario è intrinsecamente puro: non c’è niente che possiate dire a proposito di esso. Se volete dire qualcosa a tal riguardo allora dovete usare le parole, ma non fatevi catturare dalle parole. Nel corso di quella conversazione Ajahn Chah a un certo punto se ne venne fuori con questa domanda: “In che cosa tutto sorge e cessa?”. Potete osservare il sorgere e il cessare in ogni momento, ma in che cosa tutto ciò ha luogo? Questa è una domanda molto potente. Possiamo applicare la tecnica, osservando il sorgere e il cessare, ma dove, in che cosa, ciò sta accadendo? Sta accadendo nella consapevolezza, in questo accorgersi o conoscere, o comunque lo vogliamo chiamare. Qualsiasi parola usiamo, naturalmente non è quella. E qui risiede un altro elemento interessante per la pratica.
Può darsi che lo sforzo che mettete nella pratica vi porti nella direzione in cui volete andare, e allora potete sperimentare qualche momento di completa apertura all’esperienza del dimorare in consapevolezza, vedendo le cose da una prospettiva nuova. Ma pochi attimi dopo vi accorgete di non avere più un accesso diretto alla reale esperienza del dimorare nella pura consapevolezza. Ciò che avete è il ricordo di essa. Dovete stare attenti a non aggrapparvi a quel ricordo, il ricordo non è consapevolezza. Il ricordare è un’attività, è il contenuto della consapevolezza. La consapevolezza è come il contesto; tutto ciò che sorge e cessa è il contenuto, come granelli di polvere che fluttuano in quello spazio vuoto che è la consapevolezza. Potremmo usare una tecnica nella speranza che ci riporti a quell’esperienza del dimorare in consapevolezza. Non rifiutiamo una tale tecnica, potrebbe esserci utile, ammesso che non crediamo totalmente in essa.
Comunque c’è sempre il rischio che le tecniche diventino degli idoli, così come anche le immagini del Buddha possono diventarlo. Alcune immagini del Buddha sono molto belle ed edificanti. Ma il Buddha stesso non incoraggiava il ricorso a tali raffigurazioni; raccomandava semmai quella dell’albero della Bodhi. Solo successivamente, quando i Greci arrivarono in Afghanistan e incontrarono il Buddhismo, cominciarono a comparire le statue del Buddha modellate su quelle degli dei Greci. Ma anche se ai tempi del Buddha non c’erano in giro immagini del Buddha, noi adesso le abbiamo, e sono lì per ricordarci del potenziale indicato negli insegnamenti del Buddha. L’immagine del Buddha in se stessa non contiene molto di più di ciò che noi vi proiettiamo. Tuttavia, può essere di aiuto averne una, può aiutarci a riflettere così come a volte può essere utile avere uno specchio. Mentre alcuni anni fa ero in ritiro solitario in Scozia, sentii qualcosa che non andava a un occhio. Prudeva in modo fastidioso e alla fine mi accorsi che avevo una piccola scheggia proprio conficcata in una palpebra. Per toglierla dovetti tenere i miei occhiali usandoli come uno specchio, per poter vedere quella sottile scheggia e rimuoverla senza danneggiare l’occhio. Senza uno specchio sarei stato nei guai.
Così possiamo trarre beneficio dalle forme che rimandano a noi stessi delle immagini. Possiamo utilizzare in tal modo le immagini del Buddha, o il simbolo della Ruota del Dhamma, cose che ci ricordano il Buddha e le potenzialità di perfetta saggezza e perfetta compassione. L’immagine del Buddha in se stessa, però, non è la perfetta saggezza e la perfetta compassione. Sono stato molto dispiaciuto quando i Talebani distrussero quelle gigantesche statue del Buddha a Bamiyan, in Afghanistan, ma esse non erano il Buddha. Allo stesso modo, una tecnica di meditazione non è il Dhamma; è una forma che ci aiuta a essere in relazione con il Dhamma. Il concetto di consapevolezza non è il Buddha. Noi usiamo i concetti di consapevolezza, ovvero il modello dello spazio con i granelli di polvere che fluttuano attraverso di esso, come immagini che ci ricordano il lavoro che abbiamo bisogno di fare.
Siamo fortunati ad avere questi strumenti e queste tecniche ben testate e verificate da applicare nella pratica formale, e anche tecniche che ci aiutano nella pratica della vita di tutti i giorni, come i Cinque Precetti (4). “Assumo il precetto e la pratica di evitare di uccidere esseri viventi”: queste sono parole, forme, che simbolizzano un significato sostanziale, che è quello di inibire ogni intenzione di causare del male, di recare danno. La forma è utile; indica ed è il segno di quello spirito di essere innocui, che è qualcosa di importante per noi. Senza quella forma potremmo dimenticarlo. Così i Cinque Precetti sono certamente una tecnica utile, un’utile forma.
Ho imparato un’altra tecnica mirata a riportarci alla consapevolezza del momento presente dall’insegnante di meditazione Ruth Denison. Questa tecnica richiede che le persone stiano in piedi su una gamba sola. L’ho usata mentre parlavo al telefono con qualcuno che era molto disorientato, in uno stato di dolore, afflizione, confusione: “OK, su, facciamo che adesso ci alziamo tutti e due e stiamo in piedi su una gamba sola”. Le persone forse pensano che stia scherzando. “Sul serio – aggiungo – parleremo del tuo problema, ma adesso, proprio ora, mettiamoci in piedi su una gamba. Se vuoi parlare con me dobbiamo prima metterci su una gamba sola”. Così ti ritrovi nel mezzo della stanza, con il telefono all’orecchio, in piedi su una gamba. Questo è un esercizio molto utile, perché per farlo devi tornare al corpo. Dopo essere stati in piedi su una gamba sola per un po’, tendiamo ad essere riportati verso la testa, nei pensieri, ma facendolo cominceremo a vacillare e quando stiamo quasi per cadere dobbiamo per forza ritornare molto rapidamente al corpo, riportandovi l’attenzione. Le persone potrebbero dire: “Ma io non posso pensare al mio problema se sto in piedi su una gamba sola!”. Ed io rispondo: “Bene, molto bene, perché è proprio questa la ragione per cui mi hai chiamato, perché non riuscivi a smettere di pensare al tuo problema”. Non voglio essere affatto insolente quando parlo a qualcuno in questo modo; questo esercizio è utile quando vi sentite persi. E naturalmente non sto dicendo di aggrapparsi a questa tecnica e di diventare come uno di quegli asceti indiani che stanno tutto il giorno su una gamba sola. Non hanno capito qual è il punto.
Ci sono così tante tecniche per aiutare a sostenere la presenza mentale. Per molti anni Ajahn Chah non permise che ci fosse l’elettricità nel suo monastero perché voleva che noi andassimo a tirar su l’acqua dal pozzo a mano. Pensava che questo fosse un buon modo di incarnare la pratica della presenza mentale. L’altro giorno stavo raccontando ai monaci di un monastero Zen dove l’abate non voleva che ci fosse la lavatrice, perché pensava che altrimenti i monaci e le monache sarebbero diventati pigri. Alla fine il monastero acquistò una lavatrice e così l’abate disse: “Va bene, quando mettete i vostri panni nella lavatrice dovete sedere ed osservare la centrifuga che gira e gira in cerchio. Non potete semplicemente premere il bottone e andarvene di nuovo nella sbadataggine e nella disattenzione, dovete stare seduti lì”.
Ajahn Chah aveva bandito le sigarette dal suo monastero, ma quando ero un monaco appena ordinato vivevo in un monastero a Bangkok dove era permesso fumare. La regola era che non era permesso fumare a meno che tu non stessi seduto, così se volevi metterti a fumare lo dovevi fare completamente, in piena presenza. Senza dubbio non sono un fautore di questo particolare tipo di pratica, ma il messaggio che veniva trasmesso, il significato codificato in quella forma, è di fare ciò che stai facendo pienamente, in piena presenza. Se state scrivendo una e-mail, scrivete pienamente la e-mail. Spesso quando siamo seduti al computer in realtà siamo persi. Dimentichiamo il corpo e diventiamo stressati. Non stiamo realmente facendo ciò che stiamo facendo. Non siamo “del tutto qui”. Eppure abbiamo sentito molti insegnanti ripetere più e più volte che la pratica della presenza mentale è qui e ora. Il Buddha disse: “Il passato è morto, il futuro non è ancora nato”. L’unica realtà a cui abbiamo accesso è questa realtà, proprio qui, proprio ora. Certo abbiamo bisogno delle tecniche; abbiamo bisogno di forme che ci aiutino a riportarci a questo momento. Ma l’essenza della pratica è la consapevolezza. La forma è la tecnica che ci aiuta a realizzare questa qualità di consapevolezza.
Così, se il vostro uso delle tecniche di meditazione nutre la vostra fiducia e l’approfondisce, continuate a farlo. Se invece vi va a genio l’approccio artistico, se avete un certo impulso creativo, folle, e un po’ deviante a meditare in un modo differente, non abbiate necessariamente paura di questo. Potrebbe essere la vostra mente che viene in vostro aiuto in questo viaggio interiore.»
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(1) Ajahn Thate (1902-1994) è stato uno dei più influenti monaci della Tradizione Thailandese della Foresta dell’ultimo secolo. L’autore di questo articolo ha passato un periodo di tempo praticando con lui.
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(2) Il Maestro Hsu Yun (1840-1959) è sopravvissuto alle torture e alle persecuzioni dei comunisti cinesi e il suo ruolo è stato fondamentale per assicurare la sopravvivenza del Buddhismo nella Cina comunista. È considerato uno dei più influenti buddhisti cinesi degli ultimi due secoli.
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(3) Ajahn Mun è stato assieme ad Ajahn Sao il fondatore del lignaggio della Foresta Thailandese, il nome Mun si pronuncia Màn e il nome Fun si pronuncia Fàn.
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(4) Cinque Precetti: non uccidere; non rubare; astenersi da forme scorrette di attività sessuale; non mentire o indulgere nella falsa parola; non assumere bevande o droghe che alterano la coscienza.
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Titolo originale: The Art of Meditation – tratto da “Forest Sangha Newsletter”, N.94, 2015 – brano adattato e trascritto da un discorso tenuto da Ajahn Munindo presso il Monastero Aruna Ratanagiri, Northumberland, UK
(© Ass. Santacittarama, 2015. Tutti i diritti sono riservati. Soltanto per distribuzione gratuita. Traduzione di Luca Rossi)