La paura è un’emozione universale che accompagna l’essere umano fin dall’origine della vita. Ma come possiamo affrontarla e trasformarla in un’opportunità di crescita? In questo post, vi proponiamo un estratto dal discorso di Roshi Joan Halifax, una maestra zen e attivista per la pace, che ci offre una visione profonda e illuminante sulla natura della paura e sul modo di superarla attraverso la pratica della meditazione. Leggendo le sue parole, scoprirete come la paura – se sapremo accoglierla con consapevolezza e aprirci al cambiamento – possa diventare una fonte di saggezza, compassione e speranza. Un messaggio di grande attualità e ispirazione, che ci invita a riconoscere la nostra interdipendenza con tutti gli esseri viventi e a coltivare una mente aperta e un cuore generoso. Buona lettura!
«Una buona parte della mia vita è stata dedicata a situazioni che potrebbero essere considerate senza speranza: attivista contro la guerra e per i diritti civili negli anni Sessanta; assistente di persone in fin di vita; volontaria con i detenuti nel braccio della morte e in cliniche mediche in zone remote dell’Himalaya; ho lavorato a Kathmandu con rifugiati Rohingya che non hanno alcuno status e nessuno vuole accogliere. Contrastare la violenza di genere e promuovere il femminismo sono stati una costante.
Verrebbe da chiedersi perché abbia scelto di lavorare in situazioni così disperate. Perché preoccuparsi di porre fine alla violenza della guerra o all’ingiustizia, dal momento che violenza e ingiustizia sono una costante nel nostro mondo? Perché occuparsi dei morenti, quando la morte è inevitabile? Perché lavorare con chi è nel braccio della morte? La loro redenzione è improbabile. Perché preoccuparsi di uomini, donne e bambini in fuga dal genocidio? Perché lavorare per i diritti delle donne?
Che cosa significa avere speranza nel nostro mondo così tormentato?
Come buddhisti, sappiamo che la speranza ordinaria si basa sul desiderio di un risultato che però potrebbe benissimo essere diverso da quello che effettivamente accadrà. A peggiorare le cose, non ottenere ciò che speravamo è spesso vissuto come una disgrazia. Se guardiamo in profondità, ci rendiamo conto che chi è considerato un ottimista convive anche con l’ombra della paura che i propri desideri non si realizzino. La speranza ordinaria è dunque una forma di sofferenza. Questo tipo di speranza è una nemesi e va di pari passo con la paura.
Ma allora cos’è realmente la speranza?
Cominciamo dicendo quello che non è: la speranza non è la convinzione che tutto andrà bene. La gente muore. Le popolazioni si estinguono. Le civiltà scompaiono. I pianeti muoiono. Le stelle muoiono. Ricordando le parole di Suzuki Roshi “la barca affonderà!”
Se osserviamo con attenzione, vediamo le prove della sofferenza, dell’ingiustizia, dell’inutilità, della desolazione, del danno, della fine intorno a noi e persino dentro di noi.
Per questo dobbiamo capire che la speranza non si basa sull’ottimismo, sull’idea che alla fine tutto andrà bene. Gli ottimisti immaginano che tutto avrà un lieto fine. Considero questo punto di vista pericoloso: essere ottimista significa non doversi preoccupare, non sentire il bisogno di agire. E se le cose alla fine non vanno bene, si può sempre diventare cinici oppure superficiali.
La speranza, ovviamente, è anche l’opposto della visione che tutto va male e che non farà altro che peggiorare, ovvero la posizione dei pessimisti. I pessimisti si rifugiano nella loro apatica depressione o in un cinismo altrettanto apatico. Quello che accomuna pessimisti e ottimista è che, in ogni caso, entrambi si sentono legittimamente esonerati dal fare qualcosa, dall’impegno.
Se invece guardiamo la speranza attraverso la lente del buddhismo, scopriamo una speranza saggia che nasce da un’incertezza assoluta, radicata nell’ignoto e nell’inconoscibile. Come possiamo sapere che cosa succederà veramente?! La speranza saggia richiede di aprirci a ciò che non sappiamo, a ciò che non possiamo sapere; che ci apriamo al fatto di essere sorpresi, perennemente sorpresi. La speranza saggia sorge dalla vastità dell’incertezza, della sorpresa, ed è questo lo spazio in cui possiamo impegnarci. Questo è ciò che possiamo definire “speranza attiva”, l’espressione impegnata della speranza saggia.
E’ quando si discerne con coraggio, e allo stesso tempo si sa di non sapere che cosa accadrà, che la speranza saggia prende vita insieme all’imperativo di agire. La speranza saggia non è vedere le cose in modo irrealistico, piuttosto vederle così come sono, compresa la verità dell’impermanenza, la verità della sofferenza e la possibilità di trasformazione, nel bene o nel male.
La speranza saggia riflette anche l’aver compreso che ciò che facciamo conta, anche se come, quando e rispetto a chi faremo la differenza non ci è dato di sapere realmente in anticipo. Non possiamo sapere che cosa si dispiegherà dalle nostre azioni, ora o in futuro; eppure possiamo fidarci: le cose cambieranno, le cose cambiano sempre. Ma i nostri voti, le nostre azioni, il nostro modo di vivere, quel che ci sta a cuore, contano, hanno un valore.
Spesso siamo paralizzati dalla convinzione che non c’è più nulla in cui sperare, che la diagnosi di cancro del nostro paziente è una strada a senso unico, senza via di uscita; che la nostra situazione politica è irreparabile, che non c’è soluzione alla crisi climatica. Potremmo sentire che nulla ha più senso, o che non abbiamo alcun potere e non c’è motivo di agire.
Sì, la sofferenza è presente. Non possiamo negarlo. Oggi nel mondo ci sono 67,3 milioni di rifugiati; solo undici Paesi sono liberi da conflitti; il cambiamento climatico sta trasformando le foreste in deserti. I tassi di suicidio tra i bambini sono aumentati. La violenza sulle donne è in aumento. Molti non hanno alcun interesse per la religione o la spiritualità e milioni di persone sono profondamente alienate e si rifugiano nei loro dispositivi digitali. L’ingiustizia economica sta spingendo le persone verso una povertà senza precedenti. Il razzismo e il sessismo continuano a dilagare. La globalizzazione e il neoliberismo stanno mettendo a repentaglio un intero pianeta.
Ma allora ha senso la speranza in questo mondo tormentato? Lo statista ceco Václav Havel ha detto: “La speranza non è sicuramente la stessa cosa dell’ottimismo. Non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che qualcosa ha senso, indipendentemente da come va a finire”.
Per molti di noi è imperativo marciare per la pace, per la fine della proliferazione nucleare, per esercitare pressioni sul governo degli Stati Uniti affinché firmi di nuovo l’accordo di Parigi sul cambiamento climatico. Ha senso ospitare i senzatetto, compresi quelli in fuga dalla guerra e dalla devastazione climatica; ha senso promuovere la compassione in medicina, nonostante la crescente presenza di tecnologie che si collocano tra pazienti e medici. Ha senso educare le ragazze e votare per le donne. Ha senso sedersi con i moribondi, prendersi cura degli anziani, nutrire gli affamati, amare ed educare i nostri figli.
Certo, non possiamo sapere come andranno a finire le cose, ma possiamo essere certi che ci sarà movimento, ci sarà cambiamento. E allo stesso tempo, qualcosa nel profondo del nostro cuore afferma che sono tutte cose buone e giuste da fare. E così andiamo avanti, giorno dopo giorno, e ci sediamo al capezzale dell’anziana morente o insegniamo in quella terza elementare del quartiere più povero.
Questo dono di vita che ho chiamato “speranza saggia” affonda le sue radici nei nostri voti ed è ciò che il Maestro Zen Dogen intende quando ci ammonisce di “dare vita alla vita”, anche se si tratta di un solo moribondo alla volta, di un rifugiato alla volta, un prigioniero alla volta, di una vita alla volta, di un ecosistema alla volta.
Come buddhisti, condividiamo un’aspirazione comune a risvegliarci dalla nostra ignoranza, dall’avidità e dalla rabbia per liberare gli altri dalla sofferenza. Per molti di noi, questa aspirazione non è un programma di miglioramento del proprio piccolo ego. I voti del Bodhisattva, cuore della tradizione Mahayana sono, se non altro, la potente espressione della speranza, della speranza radicale e saggia contro ogni previsione. Una speranza libera dal desiderio, libera da qualsiasi attaccamento all’esito; una speranza che vince sulla paura.»
[ Roshi Joan Halifax – Tratto – e tradotto (da Carolina Lami) – da Wise Hope in Social Engagement ]
Joan Halifax è un’insegnante buddhista Zen, antropologa, ecologa, attivista per i diritti civili, assistente spirituale presso numerosi hospice e autrice di diversi libri sul buddhismo e la spiritualità. Attualmente è abate dell’Upaya Zen Center di Santa Fe, New Mexico. Joan Halifax ha ricevuto la trasmissione del Dharma sia da Bernard Glassman che da Thich Nhat Hanh e ha studiato sotto la guida del maestro coreano Seung Sahn. Come buddhista socialmente impegnata, la Halifax ha sviluppato il progetto “Essere con la morte”. Fa parte del consiglio di amministrazione del Mind and Life Institute, l’organizzazione no-profit ispirata da Sua Santità il XIV Dalai Lama che esplora il rapporto tra scienza e buddhismo.
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– Joan Halifax – Wikipedia
– Cultura Zen – (macrolibrarsi)
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