La pratica della meditazione aiuta a superare ogni coinvolgimento personale per favorire una repentina contiguità con la vitalità più intima, l’energia universale. La pratica dello zen – della meditazione – aiuta soprattutto a oltrepassare, a sovrastare la paura fondamentale sottesa, quella di non essere… L’aquila della consapevolezza sorvola su tutti gli apparenti ostacoli smascherando la loro vera, impermanente natura.
«Una buona pratica ci rende consapevoli dei nostri sogni, e non lascia inavvertito nulla di quanto accade nella sfera fisica e mentale. Non solo dobbiamo essere consapevoli della rabbia, ma delle nostre reazioni alla rabbia. Se la reazione resta a livello inconscio, non possiamo vederla né abbandonarla. Ogni reazione di difesa (e ne abbiamo una ogni cinque minuti) è un invito alla pratica. Lavorando con i pensieri e le sensazioni fisiche che si accompagnano alla reazione ci apriamo alla completezza o, se volete chiamarla così, alla santità. In una pratica corretta si abbandona l’atteggiamento egocentrico (l’intrappolamento nelle reazioni personali) per diventare sempre più il canale dell’energia universale, l’energia che muta l’universo milioni di volte al secondo. Nella nostra esperienza la chiamiamo ‘impermanenza’, ma ha un altro aspetto a cui non daremo alcun nome. La pratica ci trasforma in canali sempre più aperti al passaggio dell’energia universale, e la morte perde il suo pungiglione.
Il primo e più forte ostacolo è dato dalla mancanza di consapevolezza delle resistenze che opponiamo alla pratica, resistenze che tendono a permanere fino alla morte definitiva dell’io personale. Solo un Buddha è privo di resistenze, e non credo che tra gli uomini ci siano dei Buddha. Fino alla morte abbiamo resistenze che dobbiamo portare alla coscienza.
Il secondo ostacolo è dato dalla mancanza di sincerità sul nostro stato d’animo momento per momento. È difficile ammettere: “Sto facendo il vendicativo”, “Sto facendo il punitivo”, “Sto facendo l’ipocrita”. È una sincerità scomoda. Non è necessario comunicare agli altri sempre e comunque le nostre osservazioni su noi stessi, ma dobbiamo essere consapevoli di tutto ciò che succede dentro di noi. Dobbiamo accorgerci che stiamo inseguendo ideali di perfezione invece di vedere le imperfezioni.
Il terzo ostacolo è dato dal sopravvalutare e dal farci sviare da piccole aperture. Sono un frutto, privo di importanza finché non lo trasferiamo nella vita quotidiana.
Il quarto ostacolo è non comprendere la vastità del compito in cui ci siamo imbarcati. Non è un compito impossibile né inabbordabile, ma è infinito.
Il quinto ostacolo, comune tra chi passa molto tempo in un centro zen, è imparare a sostituire alle parole e alla lettura la pratica. Meno si parla della pratica, meglio è. Al di fuori del rapporto diretto insegnante-studente, la pratica è l’ultima cosa di cui voglio parlare. Non parlo neppure del Dharma. Perché parlarne? Il mio compito è di sapere quando e come non lo seguo. Conoscete il detto: “Chi sa non parla, e chi parla non sa”. Se sostituiamo alla pratica le parole sulla pratica, le parole diventano un’altra forma di resistenza, una barriera, un mascheramento. Come quegli studiosi che salvano il mondo ogni sera, seduti a tavola. Parlano, parlano, parlano… ma cosa concludono? Al polo opposto si collocano figure come Madre Teresa, che è troppo occupata a fare per avere il tempo di parlare.
Una pratica intelligente lavora in fondo con un’unica cosa: la paura fondamentale dell’esistenza, la paura di non essere. È ovvio che io non sono, ma è l’ultima cosa che voglio sapere. Io sono l’impermanenza espressa in una forma umana in rapido cambiamento, che però appare come stabile. Ho il terrore di conoscermi come un campo di energia in veloce trasformazione. Non voglio essere questo. Ecco perché la pratica lavora con la paura, che si esprime nell’incessante attività di pensare, speculare, analizzare e fantasticare. Con questa attività vogliamo stendere uno spesso manto protettivo che ci dà una salvezza immaginaria. La vera pratica è tutt’altro che protettiva. Ma non è questo che vogliamo, e continuiamo a martellarci nel tentativo febbrile di realizzare il nostro sogno personale; comportamento ossessivo che crea un’altra barriera tra noi e la realtà. Il trucco sta nell’usare un riflettore impersonale e vedere che le cose sono così come sono. Quando la barriera personale cade, perché andare in cerca di altre definizioni? Semplicemente viviamo e, morendo, semplicemente moriamo. Nessun problema.»
(Da: Charlotte Joko Beck, “Zen quotidiano“)
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– https://en.wikipedia.org/wiki/Joko_Beck