I buddhisti tibetani non meditano solo per se stessi, bensì a beneficio di tutti gli esseri senzienti. Le motivazioni sono, dunque, fondamentali. L’iter meditativo presuppone, innanzitutto, una retta condotta di vita; in secondo luogo è indispensabile esercitarsi in una giusta e regolare concentrazione (ad esempio sul proprio respiro) … aspetto a cui si dedica molta cura e suscettibile di sviluppi oltremodo concreti (come attualizzare determinati poteri psichici); infine è imprescindibile tranquillizzare la mente riconducendola a una giusta quiete mediante una pratica di osservazione metodica. Tuttavia il cammino trascendentale proposto dagli insegnamenti tibetani in merito alla meditazione non è così lineare come ci si è abituati nello studio – e nella prassi – di altre discipline simili. La sua natura è fondamentalmente esoterica e il segreto è la conditio sine qua non del suo apprendimento. Negli appunti che seguono Daniel Goleman ne traccia un prezioso excursus informativo. …
Buddhismo tibetano e meditazione
«Le tecniche di meditazione nel buddhismo tibetano sono basate sulla tradizione classica buddhista espressa nel Visuddhimagga. Essa si mescola inoltre con elementi classici, puramente tibetani e con il tantrismo. In un profilo della teoria di meditazione e della pratica fatto dal Dalai Lama, la teoria presentata è essenzialmente quella del Visuddhimagga theravada o, come lo chiamano i buddhisti mahayana, la tradizione «hinayana» o «Piccolo Veicolo», in contrasto con il «Grande Veicolo». Una differenza critica tra queste due grandi tradizioni buddhiste è che il bodhisattva mahayana fa voto di ottenere l’illuminazione non solo per sé, ma per la salvezza di tutti gli esseri sensibili. Questa differenza nella motivazione, dice il Dalai Lama, è decisiva; si ripercuote sia sul cammino che sull’obiettivo. Egli vede il nirvana hinayana come uno stadio antecedente allo scopo mahayana di diventare bodhisattva. Eppure, la sua concezione dello stato nirvanico concorda con quella del Visuddhimagga: è «liberazione da questa catena» di samsara tramite una cessazione in cui le «radici dell’illusione sono completamente sradicate», l’ego o «Io-pensiero» troncati. Ma per i buddhisti mahayana lo scopo è al di là del nirvana, nel ritorno al mondo e nell’aiuto degli altri verso la salvezza.»
L’importanza della motivazione nel buddhismo tibetano
«La motivazione determina l’esito della penetrazione nel nulla. Se si è sviluppata la penetrazione solamente per liberare se stessi, si avrà quello che il Visuddhimagga chiama un arahat. Ma se si è motivati dal «bodhichitta di amore e compassione», si ottiene la «liberazione superiore» del bodhisattva, in cui il proprio stato di coscienza rende portatori più perfetti di compassione, così da guidare altri alla liberazione. In entrambi i casi, dice il Dalai Lama, un bodhisattva ha «purificato la sua mente da tutte le impurità e ha rimosso i motivi e le inclinazioni che guidano a esse»; ha troncato i legami con il mondo normale di nome e forma, luogo della coscienza ordinaria.»
Le tecniche di meditazione basate sui 3 precetti
«Il cammino mahayana comincia in maniera molto simile all’insegnamento del Visuddhimagga. Ci sono tre «precetti morali», modi per il meditatore di comprendere il «Triplo rifugio» – Buddha, Dharma e Sangha – come sue realtà interiori. Il primo precetto del meditatore buddhista tibetano è il sila, la promessa di un comportamento retto. Il secondo è il samadhi (in tibetano: shiney) , fissare la mente su un oggetto per sviluppare la propria concentrazione. Le condizioni raccomandate per praticare il samadhi sono le stesse del Visuddhimagga: il meditatore deve ritirarsi in isolamento, troncare i legami con le attività mondane, e così via. I primi oggetti di meditazione includono quelli elencati nel Visuddhimagga, come la consapevolezza del respiro. Alcuni, specialmente negli stadi ulteriori, assomigliano alle divinità tantriche indiane. Questi soggetti più avanzati sono l’oggetto della visualizzazione, e hanno aspetti innumerevoli «così da adattarsi alle attitudini fisiche, mentali e sensuali di differenti individui», suscitando fede appassionata e devozione. Questi soggetti di visualizzazione incarnano differenti aspetti della mente: il meditatore si identifica con questi stati o qualità mentali non appena visualizza la figura. Chogyam Trungpa descrive una figura del genere:
Sul disco della luna autunnale, chiaro e puro, collochi una sillaba riproduttiva. I freddi raggi blu della sillaba emanano un’immensa compassione tranquilla che si irradia al di sopra dei limiti del cielo e dello spazio. Essa adempie ai bisogni e ai desideri degli esseri sensibili, portando calore essenziale così che le confusioni possano essere chiarite. Poi dalla sillaba riproduttiva crei un Buddha Mahavairocana, bianco, con le fattezze di un aristocratico — un bambino di otto anni con uno sguardo bello, innocente, puro, potente, da re. Egli indossa il costume di un re indiano medievale; porta una corona d’oro scintillante intarsiata di gioielli favolosi. Parte dei suoi lunghi capelli neri fluttua sulle sue spalle e sulla schiena; il resto è raccolto in un crocchio in cima alla testa, sormontato da un diamante blu splendente. Egli è seduto a gambe incrociate sul disco lunare con le sue mani nella mudra di meditazione, tenendo una vajra intagliata in puro cristallo bianco.»
I 4 gradi di ascesa al samadhi
«Il Dalai Lama elenca quattro gradi nell’ascesa al samadhi. All’inizio la mente del meditatore si fissa sull’oggetto principale, cercando di prolungare questo periodo di concentrazione su di esso. Nello stadio successivo, la sua concentrazione è intermittente. Le distrazioni vanno e vengono nella sua mente, alternate con l’attenzione all’oggetto principale. In questa fase, egli può sperimenta gioia ed estasi che sorgono dalla sua concentrazione; questi sentimenti rafforzeranno i suoi sforzi. Questo stadio, come lo jhana di accesso, giunge al culmine quando la mente finalmente supera tutte le interferenze, rendendo io meditatore in grado di concentrarsi sull’oggetto senza alcuna interruzione di alcun tipo, nella perfetta concentrazione degli jhana. Lo stadio finale è quello della «inerzia mentale», in cui la totale concentrazione perviene con il minimo sforzo – vale a dire, Ja padronanza dello jhana. Il meditatore può ora concentrarsi su ogni oggetto con tranquillità e senza sforzo; i poteri psichici sono divenuti possibili.»
Il ruolo della vipassana nella meditazione del buddhismo tibetano
«Il dominio dello jhana ha valore nel mahayana non per questi poteri, ma per la sua utilità nella presa di coscienza del sunyata, lo svuotamento essenziale del mondo fenomenico, incluso il mondo interno alla mente del meditatore. Lo strumento per aprire questo varco è il terzo precetto, la pratica del vipassana (in tibetano: thagthong). Il meditatore usa il potere di samadhi come trampolino di lancio per la meditazione sul sunyata. Il Dalai Lama non entra nei dettagli della tecnica vipassana nella pratica tibetana, ma menziona il fatto che il flusso della mente indisciplinata del meditatore può essere fermato «e la mente vagante o proiettata all’esterno può essere portata alla quiete tramite la concentrazione sulla composizione fisica del proprio corpo e sulla composizione psicologica della propria mente» – due tecniche di vipassana insegnata nel Visuddhimagga. Tramite il vipassana che ha come suo fulcro il sunyata, il meditatore abbandona le sue convinzioni individuali, raggiungendo infine “lo scopo che guida alla distruzione di tutte le corruzioni morali e mentali”.
Questo scopo non rappresenta, tuttavia, il culmine dello sviluppo spirituale del meditatore nel buddhismo tibetano, ma uno stadio sulla via di un’ulteriore pratica evolutiva. Il controllo dei processi mentali che egli raggiunge attraverso la concentrazione e la penetrazione lo prepara per un ulteriore esercizio di tecniche come la visualizzazione e la coltivazione di qualità come la compassione. Le molte scuole all’interno del buddhismo tibetano hanno i loro punti nodali e il loro programma specifico per l’esercizio avanzato: in tutte, le doti basilari meditative di concentrazione e penetrazione sono prerequisiti per sforzi avanzati più complessi nel training mentale.»
La natura esoterica della meditazione nel buddhismo tibetano
«Trungpa Chogyam, nel riassumere il cammino buddhista tibetano, consiglia al meditatore, prima di cominciare qualunque tecnica tibetana avanzata, di sviluppare «il senso comune trascendentale, di vedere le cose come esse sono». Per questa ragione, la meditazione vipassana forma la base del meditatore. Col vedere le cose chiaramente, il meditatore allenta le sue difese nella situazione di vita quotidiana. In questo modo si apre allo shunyata, «l’esperienza diretta senza alcun appoggio», che, a sua volta, ispira il meditatore a tendere verso l’ideale bodhisattva. Ma questa non è la fine del cammino; al di là dell’esperienza del bodhisattva c’è quella dello «yogin», al di là dello yogin il «siddha», e al di là del siddha sta il «Buddha». A ognuno di questi livelli, il meditatore ha un senso speciale di sé e del mondo — per esempio, il bodhisattva sperimenta lo shunyata (vacuità). A un livello più alto ancora c’è lo spazio psicologico del mahamundra. Qui, dice Chogyam, «i simboli non esistono come tali; il senso dell’esperienza cessa di esistere. Relazionandosi direttamente al gioco delle situazioni, l’energia si sviluppa attraverso un movimento spontaneo che non diviene mai futile». Questo porta a «distruggere qualunque cosa necessiti di essere distrutta, e a favorire qualunque cosa necessiti di essere favorita». Quando si è arrivati al mahamundra, non c’è più sforzo lungo il cammino.
Per qualcuno è difficile valutare la vera natura di ogni cammino spirituale senza parteciparvi in prima persona. Questo vale soprattutto per i sistemi come il buddhismo tibetano, nel quale il cuore delle istruzioni è esoterico. Vajrayana, il segmento tantrico del buddhismo tibetano, è velato dal segreto; il leggendario Milarepa tantrico ammonisce: «Gli insegnamenti del tantra devono essere praticati segretamente; sarebbero perduti se mostrati in pubblico». Anche se raccontati apertamente, molti metodi tibetani sono intrinsecamente «ermetici», cosicché bisogna praticarli e sperimentare veramente i loro frutti per comprenderli. Traduzioni come quella di Evans-Wentz restituiscono al lettore tutto il sapore degli insegnamenti tibetani; ma per seguire questo cammino complesso, bisogna trovare un lama come guru, perché persino oggi i metodi specifici nel buddhismo tibetano sono trasmessi solo da maestro ad allievo, attraverso stirpi che risalgono indietro di secoli.»