Dov’è che dovremmo andare, ossia in quale luogo recarci per rinvenire… noi stessi? Una cosa è certa, chi più chi meno, siamo tutti alla ricerca… dell’incommensurabile, dell’imprescindibile… D’altra parte, sei proprio sicuro che ciò che stai cercando sia una realtà oggettiva, indipendente, che esiste a prescindere dal fatto che tu stesso la percepisca? Tu persegui l’Unione! E se ciò con cui tenti di ri-congiungerti non si defilasse non appena sei in procinto di coglierla, di aggrapparti? Spesso la nostra pratica di meditazione è solo un un continuo rinvio, un rimando una posticipazione. Credere che esista un futuro in cui la mente potrà mai realizzarsi o conseguire la liberazione è solo una congettura, finanche una modestissima truffa… ma scopriamo il perché leggendo Alan Watts…
«Come può un individuo realizzare di essere il sé universale? In che modo una persona, condizionata a pensare di essere un individuo separato, racchiuso in un involucro di pelle, riesce a rendersi effettivamente conto di essere Brahman? Questa, ovviamente, è una strana domanda. Propone un viaggio verso il luogo in cui già vi trovate. È ben vero che potreste non sapere di esserci, ma ci siete. E se intraprendete un viaggio verso il luogo in cui siete, visiterete molti luoghi diversi da quello attuale e forse scoprirete, grazie a una lunga esperienza, che tutti i luoghi in cui vi recherete non sono quello che cercavate. Potreste accorgervi di essere stati lì fin dall’inizio. E quello è il dharma, o “metodo”, per usare un termine che prediligo per tradurre il concetto. È il metodo seguito praticamente da ogni guru e maestro spirituale. Quindi sono tutti illusionisti.
Perché servirsi di un termine come «illusionista» per riferirsi a loro? Sapevate che è terribilmente difficile sorprendere se stessi intenzionalmente? Qualcun altro deve farlo al posto vostro, e questo spiega perché spesso c’è bisogno di un guru o di un insegnante. Esistono molti tipi di guru, ma fra quelli umani vi sono i guru “quadrati” e i guru “beat”. I guru quadrati vi guidano attraverso i percorsi tradizionali; mentre i guru beat vi influenzano con mezzi davvero molto strani (sono un po’ delle canaglie). Anche gli amici possono fungere da guru.
Inoltre esistono dei guru che non rivestono i panni di persone, come le situazioni della vita o i libri. A prescindere da tutto questo, il compito del guru è riuscire a dimostrare in qualche modo a colui che cerca di essere già ciò che sta cercando.
Nelle tradizioni induiste, il processo del capire chi si è veramente prende il nome di sadhana, che significa ‘disciplina’. Sadhana è lo stile di vita che è necessario seguire per poter sfuggire all’illusione di essere solo un ego delimitato dalla pelle. La sadhana include lo yoga, termine la cui radice in sanscrito yuj, con il significato di ‘unire’, ed è da tale radice che la lingua inglese ha derivato parole come yoke, junction e union [in italiano: ‘giogo’, giunzione’ e ‘unione’]. In senso stretto, yoga significa ‘lo stato di unione’ (quello stato in cui il sé individuale, detto jivātman, scopre di essere sostanzialmente l’ātman). Perciò uno yogi è qualcuno che ha già realizzato tale unione. Solitamente, però, il termine yoga non è usato in questa accezione; in genere lo si usa per descrivere una pratica meditativa per mezzo della quale si può raggiungere lo stato di unione, e in tal senso lo yogi è un viaggiatore o cercatore che sta andando verso tale unione. Naturalmente, non esiste alcun metodo in senso stretto per arrivare là dove si è già. Nessuna ricerca, per quanto prolungata, basterà a scoprire il sé, poiché la ricerca implica l’assenza del sé (il grande sé, il Sé con la S maiuscola). Perciò cercarlo significa allontanarlo. E praticare una disciplina per conseguirlo significa rimandare la realizzazione.
C’è una famosa storia zen su di un monaco seduto in meditazione. Il maestro passa di lì e chiede: «Cosa stai facendo?» e il monaco risponde: «Il mio scopo è diventare un Buddha». Allora il maestro si siede lì vicino, prende una tegola e comincia a strofinarla. Il monaco chiede: «Che cosa stai facendo, maestro?». Il maestro risponde: «Sto strofinando questa tegola per farla diventare uno specchio». E il monaco risponde: «Come puoi fare uno specchio strofinando una tegola?». Al che il maestro replica: «Come puoi diventare un Buddha praticando zazen? ». Al giorno d’oggi questa storia non piace molto in Giappone.
Supponete che vi dicessi che voi, proprio adesso, siete il grande Sé, il Brahman. In un certo senso, sul piano intellettuale potreste entrare in empatia con questo concetto, ma non lo sentite veramente. State cercando un modo per sentirlo, una pratica per arrivarci. Ma non volete realmente sentirlo; ne avete paura. Perciò passate da una pratica all’altra per rimandare, per convincervi di avere ancora molta strada da fare e, forse, quando avrete sofferto abbastanza, solo allora potrete realizzare di essere l’ātman. Perché rimandare? Perché cresciamo in uno schema sociale che ci inculca che dobbiamo meritarci ciò che riceviamo, e che il prezzo da pagare per tutte le cose buone è la sofferenza. Ma in realtà, si tratta solo di rimandare. Abbiamo paura, qui e ora, di vedere la verità. E se ne avessimo il coraggio (voglio dire, il coraggio vero) la vedremmo subito. Ma è a quel punto che avvertiamo immediatamente la sensazione che sarebbe meglio non avere quel coraggio, perché sarebbe orribile. Dopotutto, da noi ci si aspetta che ci sentiamo come un “povero me”, che deve faticare tanto e soffrire per diventare qualcosa di remoto e di grande, come un Buddha o jivanmukta, qualcuno che raggiunge la liberazione.
E se è per questo potete anche soffrire davvero: sono stati inventati mille modi per consentirvi di farlo. Potete imporvi la disciplina e ottenere il controllo della vostra mente e compiere ogni genere di prodigi, come aspirare acqua dal retto o sospingere una nocciolina su per il fianco di una montagna col vostro naso. Esiste una miriade di conquiste in cui potervi impegnare. Ma non hanno assolutamente nulla a che fare con la realizzazione del sé. Fondamentalmente, quest’ultima dipende dal fatto di smetterla, proprio come quando qualcuno mette su una gran sceneggiata e noi diciamo: «E dai, piantala». Taluni ci riescono; scoppiano a ridere perché si rendono conto di essersi resi ridicoli.»
(Da: Alan Watts, “Lo zen e l’arte di imbrogliare la mente“)
– Alan W. Watts (macrolibrarsi)
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– https://it.wikipedia.org/wiki/Alan_Watts