La rana zen, la nostra splendida, quanto sorprendente fanciulla approdata, suo malgrado, presso i nostri esotici e ancor più – secondo l’ottica della sua dimensione astrale d’origine – inconsulti e peripatetici lidi umanoidi, fece la sua comparsa durante l’ultima eclisse di mezza estate. Il luogo ch’ebbe la fortuna di accogliere i suoi splendidi natali fu, guarda caso … un umile giardino zen? No, niente affatto, si trattava, piuttosto, di una miserrima periferia urbana.
L’appellativo che la contraddistinse per antonomasia, quello di rana zen, le derivò, soprattutto, dalla sua naturale predisposizione contemplativa. La sua fu un’infanzia a dir poco precaria. Crebbe nel più assoluto disagio, per strada. Per quanto spigliata, cadde vittima dei più assurdi soprusi. Non rammentava giorno o mese o anno in cui non avesse sofferto stenti di ogni genere. Ora, cosa sarebbe potuto fiorire da cotanta incolpevole ristrettezza? Rinacque, è proprio il caso di dirlo, un fior di loto.
La rana era stata sempre, di per sé, luminosa, ma con gli anni siffatta caratteristica si era accresciuta. La ragazza, inorridita dalla triste realtà quotidiana non aveva trovato di meglio che rifugiarsi in sé stessa, finché … non conobbe un àndito ove la povertà non la sfiorava, i ricatti non la riguardavano più, i bisogni sfumavano sino a trasformarsi in sottili ed eteriche benedizioni.
La fanciulla divenne una luce a se stessa, un piccolo Buddha in erba. Tuttavia non predicò, non si atteggiò, non si espose nemmeno. Il suo pensiero più spinto – che intercettai per caso quando ebbi la fortuna di conoscerla durante un satsang, un incontro di puro silenzio e condivisione del nulla – fu: “Chi predica la spiritualità ha sempre un ego spropositato”. Ma non era stata lei a pronunciarlo. Lo dedussi dal suo semplice sorriso, dal modo in cui sfiorò, suo malgrado, il mio centro, il mio nucleo, la mia essenza percettiva più recondita.