E’ possibile pensare o concepire noi stessi senza rapportarci lì per lì con un determinato oggetto, se non con una qual certa situazione? Ebbene, questo è l’incipit della meditazione. Il suo tentativo iniziale è bypassare il dualismo implicito tra gli esseri e le cose attribuendo a ciascuna manifestazione il ruolo che più le compete, quello che possedeva sin dall’origine, prima che la mente fuorviasse o falsasse i rapporti naturali dell’insieme. Reprimere le emozioni è quanto mai fuorviante. Il proprio compito dovrebbe essere rinvenire l’unità sottesa fino a esserne pienamente consapevoli … Seguono le dotte riflessioni in merito di Charlotte Joko Beck …
«Il nostro problema fondamentale, in quanto esseri umani, è il rapporto soggetto complemento oggetto. Quando udii questa affermazione, molti e molti anni fa, mi sembrò astratta e avulsa dalla vita. Eppure, tutte le disarmonie e le difficoltà nascono dall’ignorare come comportarci con il rapporto soggetto-oggetto. In termini quotidiani, il mondo è diviso in soggetti e oggetti: io ti vedo, io vado al lavoro, io siedo su una sedia. In ciascuno di questi esempi io penso a me stessa come a un soggetto in rapporto a un oggetto: tu, il lavoro, la sedia. Ma intuitivamente sappiamo di non essere separati dal mondo, e che la divisione soggetto-complemento oggetto è illusoria. E pratichiamo proprio per giungere a questa comprensione intuitiva.
Se non comprendiamo il dualismo soggetto-oggetto, consideriamo gli oggetti del mondo come la fonte dei nostri problemi: il mio problema sei tu, il mio problema è il lavoro, il mio problema è la sedia. (Se considero un problema me stessa, significa che ho fatto di me stessa un oggetto). In questo modo fuggiamo dagli oggetti che consideriamo problemi, e ricerchiamo gli oggetti che consideriamo non problemi. In questa visione il mondo si divide in me e gli oggetti che mi piacciono o non mi piacciono.
Storicamente, la pratica dello Zen e la maggior parte delle altre discipline meditative hanno cercato di risolvere il dualismo soggetto-oggetto svuotando l’oggetto di ogni contenuto. Ad esempio, lavorare al koan mu o ad altri koan svuota l’oggetto dai condizionamenti che vi sovrapponiamo. Mentre l’oggetto diventa sempre più trasparente, siamo un soggetto che contempla un oggetto praticamente vuoto. Tale stato è a volte chiamato samadhi. È uno stato di beatitudine, perché l’oggetto vuoto non costituisce più una fonte di problemi. Se raggiungiamo questo stato tendiamo a congratularci con noi stessi per l’enorme progresso.
Ma lo stato di samadhi è ancora dualistico. Quando lo raggiungiamo, una vocina interiore dice: “Eccolo! “, o “Adesso sì che vado bene”. C’è ancora un soggetto nascosto che osserva un oggetto praticamente vuoto, in ciò che equivale a una separazione soggetto-oggetto. Rendendoci conto della separazione, ci rivolgiamo al soggetto e cerchiamo di svuotare anch’esso di contenuto. Così facendo trasformiamo il soggetto in un altro oggetto, con un soggetto ancora più sottile che lo osserva. Creiamo una regressione all’infinito di soggetti.
Tali stati di samadhi non sono veri precursori dell’illuminazione, perché un soggetto sottilmente nascosto è ancora separato da un oggetto praticamente vuoto. Quando ritorniamo alla vita quotidiana, la sensazione di beatitudine svanisce e ci perdiamo nuovamente in un mondo di soggetti e oggetti. Pratica e vita non vanno assieme.
Una pratica più precisa non tenta di sbarazzarsi dell’oggetto, ma di vederlo per ciò che è. A poco a poco impariamo un modo di essere, di sperimentare, in cui non c’è più né soggetto né oggetto. Non si tratta di eliminare, ma di unificare. Ci sono ancora io e ci sei ancora tu, ma, se io sono semplicemente l’esperienza di te, non mi sento separato da te. Sono uno con te.
È una pratica più lenta perché, invece di concentrarci su un unico oggetto, lavoriamo con tutte le cose della vita. Qualunque cosa ci infastidisca o ci disturbi (quindi, se siamo onesti, quasi tutto) diventa farina per il mulino della pratica. Lavorare con tutto porta a una pratica viva in ogni istante della giornata.
Quando, ad esempio, sorge la rabbia, una pratica zen tradizionale ci direbbe di cancellare la rabbia e di concentrarci su qualcos’altro, ad esempio il respiro. Ma, anche se cacciata via, la rabbia ritornerà ogni volta che ci sentiamo attaccati o minacciati. La nostra pratica, invece, sta nel diventare la rabbia stessa, nello sperimentarla pienamente senza separazione o rifiuto. Con questo lavoro, la nostra vita si stabilizza. Lentamente impariamo a rapportarci agli oggetti problematici in modo diverso. A poco a poco, le reazioni emotive si esauriscono. Oggetti che ci incutono paura perdono a poco a poco il loro potere e possiamo affrontarli con maggiore prontezza. È affascinante osservare il prodursi di questo cambiamento, lo vedo negli altri e in me stessa. Il processo non ha mai fine, ma siamo sempre più consapevoli e liberi.»
[ Da: Charlotte Joko Beck, “Niente di speciale. Vivere lo zen“ ]
– Charlotte Joko Beck (macrolibrarsi)
– Charlotte Joko Beck (amazon)
– https://en.wikipedia.org/wiki/Joko_Beck