Liberarsi dalle paure, ma come? Ovviamente con l’aiuto della meditazione! Ezra Bayda esplora – dunque – un approccio rivoluzionario alla pratica della meditazione e alla vita stessa. Bayda critica l’atteggiamento culturale ossessionato dal “fare”, sottolineando l’importanza di “lasciar essere” anziché cercare di cambiare o migliorare costantemente. Attraverso il racconto personale – nello specifico il fatto di dover affrontare la paura dei prelievi di sangue durante una malattia – Bayda evidenzia come porsi la domanda “Che cos’è questo?” possa trasformare radicalmente l’esperienza. Abbracciare l’ansia, la stanchezza o la resistenza, anziché evitarle, diventa il cuore della pratica, portando a una leggerezza del cuore e a una spaziosità che – per l’appunto – emergono proprio quando smettiamo di cercarle. L’autore invita a rinunciare alle opinioni e all’autocritica, abbracciando la disponibilità a essere, senza la necessità di fare o cambiare. In ultima analisi, Bayda proclama che arrendersi al momento presente è l’essenza stessa della pratica.
“Nella vita della pratica c’è uno specifico atteggiamento culturale che può arrecare più danno di qualsiasi altro: l’opinione inveterata che si debba fare. […]
Il contenuto fondamentale della meditazione seduta, poco importa cosa vi apportiamo o come ci sentiamo, è semplicemente stare seduti e lasciar essere. […]
Se mentre meditiamo siamo annoiati o assonnati, di solito la giudichiamo una seduta mal riuscita. Se ci sentiamo agitati o turbati, pensiamo di doverci calmare. Quando ci sentiamo confusi, aneliamo probabilmente alla chiarezza. Ma […] dal punto di vista della pratica, tutto, qualsiasi cosa sia, è il nostro sentiero.
Dobbiamo solo porci la domanda: «Che cos’è questo?». […] Non ci sono parole che possano mai cogliere il ‘che cos’è’ dell’esperienza viscerale del momento presente. Eppure, nel fare esperienza della sua qualità unica e sempre mutevole in modo non concettuale, troviamo una soddisfazione che è impossibile provare in una vita basata principalmente sull’ottenere, sul fare, sul sistemare.
Pertanto la pratica è lasciare semplicemente essere la vita. […]
Diversi anni fa, durante una malattia cronica, dovetti sottopormi settimanalmente a un esame del sangue. A causa di un condizionamento che risaliva all’infanzia, nutrivo una forte avversione nei confronti dei prelievi di sangue. Spesso mi veniva il capogiro, e talvolta arrivavo al punto di svenire. La mia avversione non era motivata dalla paura del dolore, era solo un particolare effetto secondario del mio condizionamento. Il fatto che ne fossi consapevole non era sufficiente. Continuavo a presentarmi nell’ambulatorio per i prelievi carico di ansia. Per tentare di superarla, provai tutte le pratiche zen che avevo imparato negli anni. Per esempio, mi presentavo al prelievo concentrandomi interamente sul respiro. Continuavo però a svenire. Pronunciavo brevi mantra sulla spaziosità, sul rimanere seduto come una montagna, ma non cambiava nulla. Praticare in questo modo per combattere quella che percepivo come una mia debolezza può addirittura aver peggiorato le cose. Giudicandomi un ‘debole’, davo ancora più potere alla mia reazione condizionata.
Ma un giorno, mentre mi recavo in automobile all’ambulatorio, mi ricordai della pratica che avevo imparato: porsi la domanda «Che cos’è questo?» per ogni situazione che si presenta. Dal momento in cui mi accomodai sulla sedia per farmi prelevare il sangue, mantenni la concentrazione su quella domanda, con l’intenzione di fare esperienza delle caratteristiche del presente. Quando iniziò a venirmi il capogiro, invece dell’ansia e del timore di provare avversione, provai l’eccitazione della curiosità. Avrei scoperto com’è realmente svenire! Tuttavia non svenni. Il capogiro passò e rimasi seduto del tutto a mio agio. Abbandonata la lotta, non solo sparì l’inutile sofferenza, ma si trasformò anche l’esperienza fisica.
Tenete presente che non avevo fatto ricorso a quella pratica per evitare la sensazione spiacevole dello svenimento. Spesso è così che alteriamo la pratica, come illustra il mio comportamento precedente. In quel caso, invece, la disponibilità a essere semplicemente con l’esperienza scollegò il circuito del condizionamento. […]
Ciò di cui parlo è una certa leggerezza del cuore che è possibile introdurre nell’esperienza. La spaziosità si manifesta quando non ne andiamo alla ricerca. […]
Se siamo ansiosi, la pratica consiste nell’udire i pensieri, avvertire l’ansia e lasciarla semplicemente essere. Se siamo stanchi o assonnati, la pratica consiste nell’avvertire fisicamente la sonnolenza e lasciarla essere. Se scopriamo di opporre resistenza al momento presente, la pratica consiste nel percepire realmente la qualità di quella resistenza, e poi consentirle semplicemente di essere. […]
Non è necessario liberarsi dalle paure, dai sentimenti, dai tratti della personalità indesiderati e dalle situazioni difficili. L’unica cosa a cui dobbiamo rinunciare sono le opinioni e le autocritiche. Tutto il resto ne consegue, in particolar modo il coraggio di essere come si è, comunque si sia. […]
Tutto ciò che abbiamo realmente bisogno di imparare è la disponibilità a essere. Non siamo obbligati a fare, a sistemare o a cambiare alcunché. […]
Tale arrendersi al momento presente è l’essenza della vita della pratica”.
[ Da: Essere zen. Portare la meditazione nella vita – Ezra Bayda ]