Gli exploit della rana zen furono – come in molti sanno – davvero numerosi, ma mai così incisivi come le realizzazioni cui apparentemente pervenne quando s’inoltrò nei recessi più reconditi della sua pur opalina e trasparente coscienza. La rana si era prodigata per decenni a sostenere il suo prossimo. Si sa, lo spirito compassionevole di quel genere di umanoidi non ha, quasi mai, eguali. Tuttavia non le era mai capitato di dover soccorrere se stessa. E dire che era incorsa in ogni genere d’imprevisti … tranne che in un suo improvviso tracollo.
Si era resa conto, di punto in bianco, che la sua routine era divenuta prosaica, una recita ripetitiva. La sua supponenza sfiorava oramai il ridicolo. Quelle che lei riteneva intuizioni subliminali o, il che è lo stesso, percezioni super-coscienti le scalfivano appena la superficie. La rana decise di cambiar rotta, d’invertire l’apparente destino che la delegava tra i comprimari della finta spiritualità, marionette pressoché insignificanti che recitavano, di volta in volta, i più svariati ruoli che il caso o le circostanze gli affibbiava.
Era ancora l’alba, ma la rana s’industriava già e di buona lena a ripulire il vialetto d’ingresso al Tempio quando incontrò uno di quegli strani monaci zen divenuti oramai l’unica sua ragione di vita. Gli si avvicinò abbacchiata, avvilita e senza proferir parola, senza abbozzare il benché minimo cenno. Il monaco, al contrario, tirò dritto come se la suddetta non fosse nemmeno esistita.
Morale? Nessuna. Tuttavia la rana capì: «Gira e rigira mi sono attribuita troppa importanza. Mi sono atteggiata come se fossi il centro del mondo e invece … sono proprio uno zero. Il nulla-tutto? Mettila come vuoi – ripeté a se stessa –, sta di fatto che la ricerca eccessiva mi ha frastornato. In questo bel giardino, sono anch’io una semplice foglia.»