«”Fermarsi” è la pratica basilare della meditazione. Per restare freschi come fiori, dobbiamo imparare come fermare preoccupazioni, ansie, inquietudini e tristezze, in modo da ritrovare pace e felicità e tornare a sorridere. (Thich Nhat Hanh)»
Esiste una “pratica basilare della meditazione”? Semmai fosse possibile formulare una tesi del genere – e, quindi, sostenerla e attualizzarla – siffatto training dovrebbe consistere nel rallentare, temporaneamente, la propria attività. Ma di quale attività stiamo parlando? Non si tratta, ovviamente, del dinamismo, dell’operosità, dell’alacrità nello svolgere i propri compiti. Bensì del tumulto interiore, del coinvolgimento eccessivo che serpeggia tout court clandestino.
Il compito – rallentare, moderarsi, diventare più riflessivi, più calmi – è arduo. Un conto è profittare delle opportunità per rilassarsi che di tanto in tanto si presentano pressoché spontaneamente. Ben altro prodigarsi di proposito, costringersi in uno stato di relativa quiescenza esteriore, mentre all’interno il trambusto prosegue e si auto-alimenta senza tregua. Come regolarsi? Il metodo più elementare è attendere!
Attendere? Cos’è che dovrebbe accadere? La mente è come uno splendido lago la cui superficie risulta, ahimè, sovente increspata da capricciose e imprevedibili onde pensiero che l’agitano rendendola opaca. Se pazienti a sufficienza quel rimescolamento che genera inquietudine e irrequietezza svanirà, da sé, gradualmente, sino a rivelare la vera natura super-mentale e incontaminata del lago della coscienza. Per realizzare questo tipo di meditazione devi, dunque, fermarti, soprattutto interiormente.