A tu per tu con il vuoto – l’assenza – di pensieri. Gli accadimenti si susseguono, ma li rifletto come se la mia mente fosse solo uno specchio. Le auto si avvicendano sul viale prospiciente, poi subentra il silenzio. Gli intervalli – che dapprima ti travolgono con il trambusto del traffico, ma poi ti soccorrono con una quiete perfino suggestiva – si alternano a iosa. Una lieve brezza mi sfiora la pelle, quindi la sensazione si attenua, finché la mia caviglia non s’imbatte in un insopportabile insetto. Ed ecco il giudizio, l’aggettivo di merito – l’attributo insopportabile – che interpreta e altera – meccanicamente quanto inconsapevolmente – la sensazione. Lo rilevo e procedo.
Ho l’impressione che le circostanze galleggino tutt’intorno finché la mia attenzione non muta d’improvviso prospettiva. Se dapprincipio era rivolta pressoché esclusivamente all’esterno, ora si riconverte e s’indirizza nel profondo, verso un punto che sembra indefinito, ma che sale, sale e focalizza il centro di tutto ciò che presuppongo sia – l’essere – la mia stessa qualità di coscienza. Un centro che tuttavia non mi appartiene, giacché non corrisponde che al nucleo della vita, del mondo. La sensazione senza il pensiero crea un intervallo – nella routine – che è meditazione.
Lo spunto per questa meditazione è stato tratto dal seguente brano.