La principale insidia, il pericolo più contagioso quanto estremamente nocivo, sia per la salute individuale che collettiva, è la paura. E’ una sorta di trabocchetto che minaccia per l’appunto anche la società nel suo insieme. Non per nulla è proprio la paura il principale strumento repressivo e di controllo di qualunque sistema dispotico che intenda inibire i comportamenti sgraditi, le istanze di libertà, ma non solo, l’autodeterminazione di chiunque gli si opponga … Coloro che strumentalizzano la paura – sia direttamente che tramando dietro le quinte – in mille e uno modi quasi sempre irrazionali – sono, senz’ombra di dubbio, i peggiori tra i più abietti, efferati malviventi. Chiedo venia per l’enfasi, ma gli appunti di Joseph Goldstein – che sto per riportare – mi hanno ricondotto, per qualche attimo, all’immediato presente. Come sconfiggerla? Oggigiorno è in voga il termine resilienza per indicare la capacità di affrontare e superare determinati eventi traumatici. Quindi per neutralizzare gli effetti dannosi della paura dovremmo, in teoria, incrementare la resilienza. Cambiano i termini, ma il quesito rimane identico. Come sviluppare la propria resilienza? L’espediente proposto non ha nulla di trascendente. La paura è un’emozione e osservarla per ciò che è veramente fino a vederla dileguarsi per la sua effettiva inconsistenza è quasi scontato. Aggiungerei: la paura nasce dal vuoto e nel vuoto concluderà la sue effimera insussistente parabola … Nel cielo vuoto sgombro delle nubi pensiero come di qualunque altra formazione mentale c’è un solo invisibile vittorioso vessillo, quello dell’amore! …
«“L’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura”.
Le prime parole che Franklin Delano Roosevelt pronunciò come presidente del suo paese stremato sono anche quelle più citate, e familiari persino a chi, come noi, è nato anni dopo quel discorso. Il potere memorabile delle parole di Roosevelt sta nel ricordare agli americani che il pericolo più minaccioso non era nelle circostanze esterne della Grande Depressione, quanto nelle forze all’opera nella loro stessa mente.
Come meditanti possiamo ampliare ancora la portata di questa intuizione. Dobbiamo aver paura della paura? In quale misura la nostra forza creativa e vitale è bloccata, a volte persino paralizzata, dalla paura della paura, dalla riluttanza a sentirla e conoscerla così com’è realmente?
È difficile valutare il potere potenziale della paura di controllare la nostra vita. Questo stato mentale ha uno straordinario raggio di espressione: dalla leggera inquietudine, cronica, al cieco terrore. Può contrarre la mente e il corpo e paralizzare la volontà. La paura non è soltanto un grande potere di per sé, ma fin troppo spesso fornisce la motivazione nascosta di molti altri stati che causano dolore. Dietro tutti gli atti di avidità c’è la paura della privazione. Dietro l’odio e l’aggressione c’è la paura di essere feriti. Dietro tanta illusione c’è la paura di conoscere e di vivere situazioni dolorose.
Capite perché lavorare abilmente con la paura può essere un significativo atto liberatorio? Superando la paura della paura, e smascherando la paura stessa, non solo ci liberiamo dalla sua forza debilitante, ma indeboliamo anche molti altri stati mentali che traggono da quella fonte buona parte del loro potere.
La pratica della consapevolezza inizia con l’aprirsi a ogni cosa. Apriamo la mente ai ricordi, alle emozioni, alle diverse sensazioni fisiche. In meditazione questo accade in modo molto armonico, perché non cerchiamo, non facciamo pressione, non sondiamo, stiamo soltanto seduti a osservare. Nel contesto sicuro di un ritiro e secondo il proprio ritmo, che è quello più opportuno, le cose cominciano a emergere: la paura, la paura della paura, molti ricordi, pensieri, emozioni e sensazioni che avevamo paura di sperimentare. Cominciamo a permetterci di sentirle tutte. Man mano che le cose emergono e le sentiamo coscientemente e consapevolmente, senza far resistenza ma accettandole, servirà sempre meno energia per reprimerle. L’energia del nostro sistema comincia a scorrere più liberamente.
Poi ci guardiamo intorno, e ci accorgiamo che c’è meno paura. Abbiamo affrontato ciò che ci spaventava, e non solo siamo sopravvissuti, ma ci sentiamo persino bene. La paura non può sopravvivere se smettiamo di fuggire e di rifiutare. Comincia a perdere terreno.
La pratica ci è di aiuto. Molti anni fa, partecipai a una sesshin, un ritiro di meditazione, con Joshu Sasaki-roshi, un fiero ed esigente maestro Zen. Per me fu una sesshin intensa che mi mise a contatto con la paura più profonda. Sentivo una paura primaria, così forte che a volte temevo persino di muovermi.
Lavorai con quella paura per tutta la sesshin, e anche se in seguito perse intensità, la sensazione profondamente radicata di quel sentimento rimase per mesi. Mi muovevo in una dimensione di paura e cominciavo a considerarmi una persona paurosa. Sentivo la paura come un nodo al centro del mio essere, e pensavo di dover lavorare anni per scioglierlo.
Qualche mese dopo tenni un ritiro in Texas insieme a un’altra insegnante. Mentre camminavamo intorno al luogo di ritiro, le parlavo della mia paura, di tutto quello che dovevo fare e del peso enorme che rappresentava per me. Alla fine, lei mi disse una cosa che io stesso avevo ripetuto tante volte agli altri: “È solo uno stato mentale”. Era proprio il momento giusto per udire quelle parole. Se le avesse dette una settimana prima, non avrebbero avuto lo stesso effetto, ma in quel momento preciso mi aprirono alla prospettiva che in realtà la paura non appartiene a nessuno. Non è legata all’ ‘io’, non fa parte di ‘me’. È solo uno stato mentale. Era lì e sarebbe andata via. Io non potevo farci nulla, se non lasciarla essere.
Per tutto quel tempo, anche se l’avevo osservata, in qualche modo non ero stato consapevole della mia avversione per la paura, che provocava anche un’identificazione negativa con essa. Quando compresi davvero che la paura è solo uno stato mentale, svanì da sola. Non voglio dire che la paura non è più tornata, ma da allora mi è molto più facile affrontarla.
Le emozioni sono come le nubi che si muovono nel cielo. A volte paura o rabbia, a volte è felicità o amore, a volte è compassione. Ma, in definitiva, nessuna costituisce un sé. Sono semplicemente quel che sono, ognuna manifesta le sue qualità. Quando lo abbiamo compreso, possiamo coltivare le emozioni che riteniamo utili e lasciar essere le altre senza avversione, repressione, o identificazione.
Paura, depressione, disperazione, indegnità: ci limitiamo a guardarle e a sentirle. Forse ci vorrà molto tempo perché il processo maturi, o forse basterà un momento di comprensione o improvvisa: “Oh, si, è solo uno stato mentale”. C’è chi ha lavorato con molto successo su queste emozioni, anche se spesso è necessaria una grande pazienza.
Munindra-ji, uno dei miei primi insegnanti di Dharma, diceva che il tempo non ha peso nella pratica spirituale. La pratica non può essere misurata in ore, perciò mettiamo da parte l’idea di quando e quanto a lungo. La pratica è un processo che matura e si evolve con il ritmo che le è proprio. È come i fiori che spuntano in primavera. Potete tirarli per farli crescere più in fretta? Io ci provai una volta con le carote, nel mio primo giardino, quando avevo otto anni. Non funzionò.
Non abbiamo bisogno di un periodo di tempo determinato per lasciar essere le cose. Perché non farlo ora?»
(Da: Joseph Goldstein, “La pratica della libertà. Appunti sulla meditazione di consapevolezza“)
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