Nella pratica della meditazione, impariamo a osservare con attenzione i movimenti della nostra vita quotidiana, riconoscendo che gran parte delle nostre azioni sono guidate dal desiderio di sfuggire al disagio e all’insoddisfazione. Che si tratti di fame, noia, stanchezza o dolore, siamo costantemente in fuga da sensazioni spiacevoli, cercando di riempire un vuoto interiore che sembra non trovare mai pace. Con l’aiuto della meditazione, possiamo smettere di scappare e iniziare a guardare direttamente questo dolore fondamentale, senza giudizio né resistenza. Questo atto di coraggio ci permette di scoprire una vastità interiore, una pace che nasce dall’accettazione e dalla presenza. La meditazione diventa così un ponte verso una comprensione più profonda di noi stessi, trasformando l’insoddisfazione in consapevolezza e gioia autentica.
«Immaginiamo di svegliarci, un bel mattino, con tutta la giornata davanti a noi libera da impegni. Per un po’ resteremo a letto, ma ben presto proveremo il disagio della necessità di urinare. Allora ci alziamo e in tutta fretta soddisfiamo quel bisogno, lasciamo la stanza da bagno per sfuggire al cattivo odore, quindi ci rituffiamo sotto le coperte per sfuggire al freddo. E pensiamo: “Ora sì che starò comodo e felice”. Ma dopo un istante, ecco che cominciamo ad aver fame, così dobbiamo alzarci di nuovo e liberarci di quella spiacevole sensazione. Quando poi abbiamo finito di mangiare, dobbiamo lavare i piatti e rimettere a posto la cucina per evitare la spiacevole eventualità che il cibo vada a male e attragga le mosche. Decidiamo allora di andarci a sedere nella nostra poltrona preferita, e pensiamo: “Ora, finalmente, sarò felice”, ma anche qui dobbiamo muoverci in continuazione, altrimenti il corpo comincia a dolere. E anche se, dopotutto, possiamo sentirci relativamente a nostro agio, ben presto star seduti in poltrona senza far niente diventa noioso: e per sfuggire alla noia dobbiamo pensare a qualche svago. Allora ci alziamo e andiamo a passeggio, ma prima ancora di rendercene conto, ecco che siamo stanchi e dobbiamo rimetterci a sedere per evitare quella sensazione dolorosa. Poi abbiamo di nuovo fame. Poi siamo di nuovo annoiati. Poi siamo di nuovo stanchi: è proprio così, vero? Prendiamo in considerazione noi stessi, in questo medesimo istante: ci grattiamo per liberarci da un prurito, ci muoviamo per alleviare un dolore, ci dimeniamo per l’irrequietezza. Non è che non dobbiamo fare queste cose: tutt’altro; dovremmo, però, osservarle con nitidezza e acutezza per poter comprendere questo aspetto della nostra vita. È proprio questo senso del dolore, infatti, che ispira gran parte delle nostre azioni.
E onnipresente. E un’esperienza imprescindibile della nostra vita, come l’acqua per un pesce. E a mano a mano che riusciamo a discernere la natura pervadente dell’insoddisfazione nella nostra vita, distinguiamo anche la nostra struggente preoccupazione di evitarla. Creiamo, così, complicati drammi attorno alle nostre ripetitive abitudini, ai nostri desideri, ai nostri rapporti umani, per il solo fine di perderci in essi e di non trovarci a faccia a faccia con la fame da cui essi sono generati: fame di contatti umani, fame di amore, fame di cibo, fame di felicità, fame di comodità.
Se osserviamo da vicino questa fame, cercando di viverla pienamente, ci possiamo rendere conto che essa ci guida di continuo, e possiamo anche scorgere il dolore fondamentale, esistenziale, in cui essa è radicata: è proprio questo punto aperto e dolente di noi stessi che, per tutta la vita, cerchiamo di coprire e di evitare. Fuggiamo di continuo la sua immensità.
Ma appena decidiamo di interrompere questo girotondo di fuga, entriamo in contatto con quel dolore fondamentale e originale. E se nutriamo una costante propensione a indagarlo con attenzione viva e piena, se permettiamo alla nostra pratica di schiudersi a esso e di percepirlo interamente, ecco che in quel momento succede qualcosa di straordinario: quella fame che ci guida e ci tiene in continuo movimento, sparisce. Questa scomparsa avviene non perché quella fame è una cosa cattiva, né perché noi dovremmo esserne liberi, né perché abbiamo cercato di affrancarcene: la fame sparisce semplicemente perché, nella totale apertura di quell’istante, noi non ne abbiamo più bisogno.
Quella fame e quel continuo movimento rappresentano il modo in cui evitiamo di affrontare il nostro dolore fondamentale. Ma quando permettiamo al nostro sguardo di rivolgersi a esso, ecco che finalmente ci acquietiamo. Non che sia facile affrontare il dolore: tutt’altro. In effetti, ciò comporta a sua volta una grande sofferenza. Ma quando decidiamo finalmente di viverlo pienamente e direttamente, scopriamo che attorno a questo punto scoperto e dolente si spalanca un sentimento di sorprendente vastità. Se, insomma, non aggiungiamo al dolore la nostra identificazione e la nostra reazione, esso resta lì, così com’è, sopportabile. È proprio questo il nostro compito. Il maestro sufi Pir Vilayat Khan lo spiega con le seguenti parole:
Vincete qualunque amarezza nata dal non sentirvi all’altezza della quantità di dolore che vi era stata affidata. Come la madre del mondo porta il dolore del mondo intero nel suo cuore, così ognuno di noi, essendo parte del suo cuore, è dotato di una certa misura di dolore cosmico. E voi condividete la totalità di quel dolore, e siete chiamati ad affrontarlo con gioia, anziché con autocommiserazione.
Non la passeremo liscia se crederemo di essere capaci di affrontare il dolore: finora, non abbiamo fatto altro che convincerci che il dolore è qualcosa da temere e da evitare a tutti i costi. Un lungo condizionamento ci ha indotto a credere così, e proprio attorno a questa paura si è edificata la nostra società.»
[ Da: Jack Kornfield, Joseph Goldstein, “Il cuore della saggezza. Esercizi di meditazione“ ]