A volte, quando ci si inoltra nei sentieri interiori che la meditazione dischiude, le distinzioni iniziano a perdere spessore. Quel bisogno ostinato di classificare, separare, affermare identità e ruoli svanisce come nebbia al primo sole. Laddove regnava la pretesa di definire, subentra un ascolto più sottile, che si fa largo tra i pensieri come un ruscello tra le radici. La pratica meditativa diviene allora uno sguardo che accoglie, un’attenzione che non pretende di spiegare, ma si lascia toccare dal mistero del momento. In questo scenario, anche la natura partecipa senza ostentazione: il bosco, gli alberi, gli elementi si offrono come presenze amiche, senza bisogno di parole. Non esiste una posizione da mantenere, né una risposta da cercare. Si resta. E in quel restare, si intravede che la differenza tra sé e il mondo è solo un’eco che si dissolve nel silenzio della consapevolezza.
La prima reazione quando ci relazioniamo con qualche estraneo è valutarne i pregi, gli eventuali difetti, basandoci sempre su criteri pressoché istantanei, provvisori quanto informali. La pietra di paragone è sempre il conosciuto, ciò che in qualche modo abbiamo già esperito. Il criterio è la differenza che ci rende, secondo i casi, tristi, orgogliosi, ecc. Il parametro di giudizio è la mancanza, ossia il vuoto, che in realtà non è il gap con il diverso, l’alieno, ma la distanza che ci separa da noi stessi. Un distacco che si può colmare soprattutto con la meditazione.
La differenza
La distinzione decade,
mi sento come i verdi
e cari omini
che popolano il mio bosco di betulle.
Il leccio mi deride,
il larice sogghigna
all’imponente comparsa del castagno.
Che tristezza, Maestà!
Il pioppo è tremulo,
il salice trastulla.
Sicché mi fermo.
Implorare un obolo?
Qui tutti danno
e non avrebbe senso
nemmeno chiedere.
Un attimo bell’elfo,
la tua saggezza intriga,
mi seduce, ma io
chi sono, dove mi trovo?
Che differenza fa!
Sei tutto, poi nessuno,
sei laddove tu creda.
Nugoli grigi oscurano l’azzurro,
fiori rossi ne esaltano la luce.
Epilogo
Quando tutto sembra confondersi, e le forme si rincorrono senza pretendere un perché, rimane la traccia discreta dell’attenzione. Non quella che cerca, ma quella che vede. In quell’istante sospeso, la meditazione non risponde: invita, accenna, sfuma. E se anche le parole svaniscono come foglie nel vento, ciò che resta è un sentire intimo, che non ha bisogno di definizioni per essere reale. Così, forse, l’essenziale si cela proprio lì: dove la differenza non conta più.