La paura è un’emozione universale, radicata nella nostra percezione di identità e nella consapevolezza della nostra fragilità. Spesso, cerchiamo di nasconderla dietro maschere di controllo, rabbia o distrazione, ma la meditazione ci insegna che l’unico modo per superarla è osservarla. Attraverso la pratica della consapevolezza, impariamo ad accettare la nostra natura impermanente e vulnerabile, riconoscendo che non c’è nulla di stabile o definitivo in ciò che crediamo di essere. Questo processo, sebbene inizialmente spaventoso, ci porta a una profonda realizzazione: solo abbracciando la propria autenticità, con umiltà e senza vergogna, possiamo aprirci all’amore e chiedere aiuto. La meditazione diventa così un ponte verso la libertà interiore, un modo per trasformare la paura in coraggio …
«La paura ha una natura pervasiva. La paura è fondamentalmente radicata nel meccanismo del nostro senso di identità. Chi pensiamo di essere? Il corpo, i pensieri, le sensazioni, i desideri, i punti di vista, le relazioni: noi siamo tutto ciò. Ma sappiamo anche che si tratta di cose piuttosto evanescenti. Il corpo invecchia e muore. I pensieri vanno e, la maggior parte delle volte, vengono e sono noiosi o inaffidabili; anche i sentimenti sono inaffidabili e spesso insoddisfacenti; non possiamo creare a comando quelli che ci piacciono, e anche quando arrivano, passano velocemente. I nostri punti vista sono spesso non verificati – e comunque è opinabile il fatto che noi si creda veramente in essi – e le nostre relazioni sono capaci sia di farci impazzire sia di farci felici. In altre parole la nostra identità è intrinsecamente incerta, totalmente instabile e falsa. Nel profondo della nostra psiche sappiamo tutto ciò e ci spaventa. E quando arriva il momento di rivelarci, di darci completamente all’amore, sentiamo tutto ciò, o evitiamo di sentirlo, raccontando a noi stessi e alla persona amata una storia.
Come possiamo vedere in un’opera come l’Odissea, e come scopriremo nella nostra vita, l’unica via di uscita da questo dilemma è attraverso di esso. Dobbiamo accettare chi siamo, accettare la nostra insostanzialità, la nostra vulnerabilità, la nostra falsità, e da lì spingerci in avanti. Ciò rappresenta una profonda realizzazione. Un mio amico Zen aveva avuto paura per trenta anni, prima di scoprire che non aveva più bisogno di fare finta di non essere nel modo in cui era, e che poteva avere paura e chiedere aiuto. “Per favore, aiuto”, ha cominciato a dire ad alta voce, o mentalmente se c’era qualcuno nei paraggi. “Per favore, aiuto”. E anche se non sapeva a chi stava chiedendo aiuto, il farlo lo ha aiutato. Successivamente ciò lo ha aiutato a raggiungere me, una persona in carne e ossa.
Quando finalmente siamo pronti, dopo un lungo travaglio, ad ammettere la nostra paura, e a mollare tutte le nostre strategie e i nostri meccanismi di fuga, la nostra rabbia, la nostra distrazione, o la nostra disperazione, possiamo imparare a chiedere aiuto. Definirei ciò ‘umiltà’. Accettando chi siamo realmente senza vergogna od orgoglio, possiamo – e dobbiamo – volgerci verso qualcun altro con amore.»
[ Da: Norman Fischer, “Tornare a casa. Un commento zen all’Odissea“ ]