Cosa significa davvero vivere? Stephen Batchelor, nel suo libro “Dopo il buddhismo”, ci invita a immergerci profondamente nell’esperienza umana, in quella danza costante tra nascita e morte che caratterizza ogni cosa. Il Dharma, ci dice Batchelor, non è un sistema di regole o credenze astratte, ma un invito a esplorare il nostro mondo interiore, un mondo fatto di sensazioni, pensieri ed emozioni in continuo mutamento. Questo mondo, che il Buddha chiamava “loka”, è come un’onda che si infrange sulla riva: nasce, si sviluppa e poi svanisce. Eppure, è proprio in questa impermanenza che troviamo la chiave per comprendere la sofferenza (dukkha) e per liberarci dalle sue catene. Il testo ci invita a non fuggire dalla sofferenza, ma ad abbracciarla come parte integrante della vita. A smettere di cercare una felicità eterna e a trovare invece la bellezza e la gioia nei momenti fuggevoli. Perché è proprio nella consapevolezza della transitorietà di ogni cosa che possiamo coltivare un’autentica gratitudine e un profondo senso di pace. Cosa ne pensi di questa prospettiva? Hai mai riflettuto sulla natura impermanente della tua esperienza? Condividi i tuoi pensieri nei commenti!
«La pratica del dharma avviene interamente all’interno di quel ‘dominio’ (visaya) che è il regno dell’esperienza umana, un mondo intimamente legato al corpo e ai sensi. “E soltanto in questa struttura mortale alta quattro piedi e dotata di percezione e di mente”, dice Gotama, “che posso rendere conoscibile il mondo”. Altrove, dice: “Si sta disintegrando, ecco perché è detto ‘mondo’”. Impossibile rendere il gioco di parole: ‘mondo’ è loka, che Gotama collega al verbo lujjati, che significa ‘disintegrare’, ‘cadere a pezzi’, o ‘perire’. (In effetti le due parole si assomigliano, ma non derivano dalla stessa radice). Per lui, loka non descrive il mondo là fuori che posso osservare e di cui sento parlare come spettatore disinteressato, ma sta per qualunque cosa accada. Il mondo è ciò che ‘cade a pezzi’, ‘si sgretola’, o semplicemente ‘passa’. In francese si direbbe ‘c’est ce qui se passe‘: è ciò che accade, ciò che si disintegra mentre diventa passato. Indica tanto i pensieri e le sensazioni che sorgono e svaniscono quanto gli eventi che accadono al di fuori del corpo.
‘Il tutto’ (sabbe), ‘dominio’ (visaya), e ‘mondo’ (loka) sembrano essere sinonimi. Insieme, implicano che l’esperienza umana è complessa, incarnata e transitoria. A questi possiamo aggiungere un altro sinonimo ancora: dukkha, ‘sofferenza’. La vita è qualcosa che soffriamo, subiamo, sopportiamo. Nascere in questo mondo implica che un organismo senziente sia soggetto alla malattia, all’invecchiamento e alla morte. Dukkha si riferisce non solo al dolore palese, ma anche al fremito di sottile disagio che accompagna la felicità. Anche quando ci rallegriamo di sentirci bene, siamo consapevoli della fragilità di questa sensazione. Siamo tacitamente attenti all’improvvisa fitta di dolore o all’angosciante grido d’aiuto che potrebbe farlo cessare. Il godimento stesso del piacere comprende la struggente anticipazione della sua fine. Invece di ignorare questi fatti sconcertanti, accettiamo la sfida di comprenderli.
Dukkha è la dimensione tragica della vita, implicita nell’esperienza poiché il mondo cambia costantemente trasformandosi in qualcosa di diverso. Dukkha è la tonalità minore della vita, il suo gusto dolceamaro, il suo fascino penosamente fugace, la sua sublimità incantevole e terrificante. L’origine del dukkha si trova nella struttura stessa del mondo, non in un’emozione come la brama o in una cognizione erronea come l’ignoranza. Un mondo condizionato e impermanente come il nostro non è il luogo dove troveremo una felicità durevole. Tuttavia, più ci apriamo sinceramente a questa dimensione tragica, e la abbracciamo, più apprezziamo la bellezza, la gioia e l’incanto del mondo: proprio perché sono fuggevoli e destinati a scomparire.
La disintegrazione del mondo è un difetto di cui lamentarsi soltanto se paragoniamo il mondo all’eternità, alla perfezione e all’unità di un Assoluto. Quando, però, Dio o i suoi surrogati sono al di fuori del nostro dominio, il mondo è esattamente ciò che è, né da preferire né da respingere a favore di qualcos’altro. Invece di afferrare il mondo perché non cada a pezzi, o di ritrarci per poterlo trascendere, chi pratica il dharma lo abbraccia allo scopo di comprenderlo. Tale abbraccio alimenta una relazione contemplativa con l’esperienza, dove occuparci di ciò che sta accadendo trasforma il suo svanire in uno spazio nirvanico fertile, da cui può emergere una risposta senza precedenti al dukkha del mondo.»
– Da: Stephen Batchelor, “Dopo il buddhismo. Ripensare il dharma per un’epoca laica“ –
– Stephen Batchelor (amazon)
– Stephen Batchelor (macrolibrarsi)
– Stephen Batchelor – Wikipedia