Il nobile ottuplice sentiero può essere inteso come una via finalizzata alla cessazione della sofferenza, una pratica buddhista – ma non solo – per emanciparsi. Il percorso è una spirale costellata da passi successivi e, al contempo, interrelati da cui, invero, è impossibile prescindere. Passi che – sulla falsariga della saggezza e dell’etica – convergono, comunque, nella meditazione. Segue la dotta esposizione di un maestro quale Corrado Pensa, concreta e vantaggiosa quanto esplicativa […]
«Vorrei sottolineare alcuni aspetti dell’ottuplice sentiero che mi sembrano rilevanti. Nel retto cammino abbiamo, in primo luogo, la retta comprensione e la retta intenzione, che formano l’area della saggezza. Poi la retta parola, la retta azione e i retti mezzi di sussistenza, che sono i tre fattori che costituiscono l’area dell’etica, sila. Quindi il retto sforzo, la retta consapevolezza e la retta calma concentrata, che sono i tre fattori che costituiscono l’area della meditazione. Perciò l’ottuplice sentiero è anche chiamato il triplice tirocinio, perché è tirocinio di saggezza, tirocinio di etica e tirocinio di meditazione.
Tutti questi fattori sono interdipendenti, si sostengono e si nutrono a vicenda, in un percorso che non va visto come qualcosa di lineare che va da A a B, ma come qualcosa di circolare. Questa circolarità ci mostra con maggiore chiarezza come questi fattori si condizionino positivamente a vicenda. La consapevolezza viene arricchita anzitutto dai fattori che le sono immediatamente vicini: retto sforzo e retta calma concentrata. Retta consapevolezza, sammā sati.
La consapevolezza è immediatamente nutrita dal retto sforzo e dalla retta calma concentrata. Vale a dire che se non ci fosse il retto sforzo, il retto impiego di energia che ci ha portato a un ritiro, e il continuo lavoro alla calma concentrata, incontreremmo la consapevolezza con difficoltà, sarebbe molto occasionale, e non sarebbe probabilmente consapevolezza autentica.
Quindi, retto sforzo, retta consapevolezza e retta calma concentrata: esercizio di base per imparare poi a suonare spontaneamente. Se non facciamo le scale al pianoforte, se non facciamo gli esercizi, non arriveremo a qualcosa di spontaneo, cioè a un vivere, un riposare nella consapevolezza in maniera più costante e più spontanea. Quindi, immediato nutrirsi, immediato arricchirsi della consapevolezza in virtù di questi fattori vicini: retto sforzo e retta calma concentrata, o retto raccoglimento.
Seguono le altre due aree, quella dell’etica e quella della comprensione. Non penso che sia da sottovalutare il legame tra etica e capacità di retta consapevolezza. Ovviamente, all’inizio, l’etica è facilmente un fatto soltanto normativo, di cui riconosciamo l’importanza e al quale cerchiamo di adeguarci.
Agli inizi possiamo faticare, possiamo non avere una risposta spontaneamente etica, ma solo normativamente, «doverosamente» etica. Poi, con l’approfondirsi della pratica, da questa situazione «normativa» dobbiamo passare a un vero e proprio impulso, addirittura un gusto, a vivere secondo princìpi, e non più a caso o secondo preferenze egocentrate. Proprio la tendenza, l’impulso, la preferenza a vivere secondo princìpi segnalano che si è affacciata un’etica che non è più soltanto un fatto che ci imponiamo forse per rispetto, ma che non sentiamo ancora.
A me piace la parola inglese per rettitudine morale, integrity: integrità, essere interi, essere d’un pezzo, non essere divisi, doppi, frammentati.
Quando poi cominciamo a gustare i frutti di un atteggiamento etico, questo atteggiamento ci porta forza, ci porta pace. Etico, e non moralistico, perché se è moralismo, se è rigidezza, è ancora un impasto di avversione, attaccamento e ignoranza, e quindi non può portarci né pace né forza.
Non solo, quindi, l’etica ci sostiene e ci fornisce queste cose buone. Ma questo orizzonte di vivere secondo principi, di coltivare e amare sempre più il non nuocere, l’affidabilità, la responsabilità, configura un orizzonte che va oltre l’orizzonte egoico. E questo non può non sorreggere il lavoro della consapevolezza, che per essere tale deve essere sempre meno egocentrata. Abbiamo quindi un sostegno abbastanza chiaro in questo orizzonte non egocentrato che è l’orizzonte etico, in questa coltivazione di valori che vanno al di là dell’egoismo.
L’etica è in realtà una cura per l’egoità, così come una cura direttissima è l’attenzione saggia, yoniso manasikāra; ma, come dicevamo, etica e consapevolezza si sorreggono a vicenda, sono fattori interdipendenti. Per esempio, è frequente il caso di praticanti che, dopo un certo tragitto di anni di pratica, si rendono conto di avere una chiarezza e una decisione in campo etico che prima non avevano: è qualcosa che si è sviluppato attraverso la pratica. Quindi, la pratica che approfondisce l’etica, l’etica che approfondisce la pratica: fattori interdipendenti.
L’ottuplice sentiero è circolare, o meglio a spirale. C’è la parte etica, c’è la parte più strettamente meditativa, e c’è la parte di saggezza o comprensione. Mi sembra importante vedere il legame tra retta comprensione e retta intenzione, che sono i due fattori che compongono quest’area. La retta comprensione nutre la retta intenzione, la retta intenzione e la retta comprensione nutrono la parte etica, la parte etica nutre la parte meditativa, la parte meditativa nutre la parte comprensione, e ricomincia così questo circolo fecondo.
La retta comprensione è anzitutto comprensione delle quattro verità circa la sofferenza e il modo in cui la produciamo, ossia circa la sofferenza e le sue cause. La retta intenzione non è qualcosa di vago (avere l’intenzione giusta), è qualcosa di definito e che rappresenta un frutto importante della retta comprensione. C’è un legame molto diretto, perché retta intenzione significa il contrario di attaccamento e di avversione. Quindi la comprensione, la retta comprensione, scalza e pian piano sostituisce l’ignoranza, ossia l’inquinante più profondo. A scalzarlo ci pensa il fattore più importante e centrale, che è quello della comprensione e della saggezza.
L’attaccamento viene pian piano sostituito da rinuncia e generosità, che sono il contrario dell’attaccamento. Poi ci occuperemo di rinuncia, questa parola inquietante che visiteremo più da vicino. Rinuncia e generosità. E al posto dell’avversione, compassione, mettā e karuņā.
Abbiamo così le tre cause fondamentali della sofferenza: attaccamento, avversione e ignoranza; e abbiamo l’ottuplice sentiero, l’insieme degli strumenti per far fronte a questi inquinanti, che comincia a rimpiazzarli con i loro contrari: comprensione o saggezza, rinuncia e generosità, compassione. Da una comprensione sempre più approfondita nascono i frutti a base di rinuncia, che oggi si chiama più spesso «lasciar andare».
Potremmo dire che c’è una medaglia che su una faccia si chiama rinuncia e sull’altra si chiama generosità, ma è la stessa medaglia. C’è una medaglia che su una faccia si chiama rinuncia e sull’altra si chiama compassione, ma è ancora la stessa medaglia.»
[ Da: Corrado Pensa, “Attenzione saggia, attenzione non saggia“ ]