La pratica della “benevolenza amorevole” (Metta) non è solo un esercizio di tranquillità, ma un potente strumento di “meditazione di visione profonda”. Spesso resistiamo alle esperienze spiacevoli, cercando di fuggire o distrarci, ma questo non risolve il problema. Attraverso la benevolenza, impariamo ad accogliere il dolore con apertura e serenità, osservandolo senza giudizio. Questo cambiamento di atteggiamento ci permette di vedere la vera natura delle cose, liberandoci dalla sofferenza creata dalla resistenza. Il Ven. Ajahn Tiradhammo ci rammenta che il dolore è soggettivo: cambiando il proprio stato mentale, possiamo trasformare, altresì, la nostra esperienza. Intraprendi, dunque, il cammino della meditazione, coltivando un atteggiamento di amorevolezza verso ogni aspetto dell’esistenza, trovando la quiete nel cuore della tempesta. Scopri come la benevolenza può svelare nuove dimensioni di consapevolezza, illuminando il tuo cammino interiore.
“Versione riveduta e corretta di un discorso fatto durante un ritiro nel 1993.”
«La pratica di “Metta” è un esercizio di meditazione che generalmente viene insegnato come un tipo di meditazione di tranquillità. I meditanti coltivano pensieri di benevolenza nei propri confronti e poi condividono questa benevolenza con altri, includendo infine, in modo equanime, tutti gli esseri dell’universo.
Ma ho scoperto che è anche molto utile come esercizio di meditazione di visione profonda. E questo, in parte, perché il solito modo di relazionarci all’esperienza – soprattutto a quella spiacevole – è opporvi resistenza. Se potessimo in qualche modo cambiare il nostro atteggiamento ed essere un po’ più tranquilli, o anche amichevoli, verso le cosiddette esperienze negative, ciò ci darebbe la possibilità di avvicinarci ad esse, vederle chiaramente, e averne perciò una visione profonda e più chiara della loro vera natura.
La parola pali “metta” è spesso tradotta con “gentilezza amorevole”, tuttavia, per molta gente ciò potrebbe essere alquanto idealistico. Quindi io preferisco di solito tradurla con ‘benevolenza, amorevolezza e a volte anche ‘non conflittualità’, ‘tranquillità’, ‘apertura’ o ‘ricettività’, a seconda del contesto in cui la si usa.
Questa pratica è di particolare utilità per quanto riguarda le cosiddette esperienze spiacevoli della vita. La maggior parte delle persone, non appena si accorge di qualcosa di spiacevole o doloroso, cerca di fuggire. Ma ciò in realtà non risolve il problema: cercando le distrazioni non riusciamo a risalire alla vera origine della situazione. Per prima cosa bisogna riconoscere: c’è della sofferenza, del disagio, del dolore, e poi bisogna andargli incontro per trovarne l’origine. Soltanto rimuovendone l’origine lo risolviamo veramente. Pensiamo di allontanarlo distraendoci, ma poiché la radice è ancora lì, continua a crescere. Solo che prende altre forme: con questo tipo di resistenza rispunta in altro modo.
Naturalmente, come sapete, per molte persone ciò è più facile a dirsi che a farsi. Chi vuole andare all’origine dei propri dolori? La nostra reazione abituale è quella di allontanarcene. Ma sviluppando un atteggiamento più amichevole e pacifico verso la cosiddetta esperienza negativa e spiacevole, possiamo cambiare il nostro abituale modo di relazionarci ad essa. Quanto meno non peggioriamo la situazione, non reagiamo più, per l’ennesima volta, nel solito modo automatico e avremo così la possibilità di metterci in relazione con essa in modo nuovo. E questo, insieme ad una base di concentrazione e chiara consapevolezza, ci permette di vedere le cose con un po’ più di chiarezza, per quello che realmente sono.»
Il dolore è soggettivo
«Ecco perché dico che è soltanto cosiddetto “negativo” o cosiddetto “spiacevole”. Come ho già detto, ciò che chiamiamo “dolore” è soggettivo. Ognuno di noi dà la propria definizione: c’è una sensazione, c’è uno stato mentale, una persona dice “ahi!”, un’altra persona dice “non è niente”. E non solo. Dipende anche dal nostro stato d’animo individuale. Se ci sentiamo molto turbati, in uno stato d’animo infelice, il più piccolo disagio fisico può essere molto doloroso. Invece, se ci sentiamo in uno stato d’animo più felice o pacifico, possiamo tollerare un maggior disagio. Allora dov’è il vero disagio?
Nell’insegnamento Buddhista ciò che noi chiamiamo dolore e ciò che è spiacevole è nella nostra mente. E’ un aspetto particolare dei fenomeni mentali. Così, cambiando semplicemente il nostro stato mentale, possiamo anche cambiare la nostra esperienza del dolore o del disagio.
Certamente per alcune persone la pratica della benevolenza amichevole suona in effetti un po’ folle, essere amichevole con il proprio dolore sembra folle: “Cosa?!” Non ha senso essere benevolo verso il proprio dolore! Bisognerebbe disfarsene, reprimerlo, conquistarlo, sconfiggerlo, piuttosto che esserne amico.”
Ma tutto questo viene dal potere della volontà, che è la base dell’ego. “Voglio scacciare il dolore, voglio disfarmi del mio malessere” viene tutto dal nostro ego. E forse dobbiamo accettare il fatto che a volte funziona. Ma in una prospettiva più ampia e a lungo termine, vediamo che in realtà non funziona. Abbiamo un sollievo temporaneo, una gratificazione temporanea, ma nessuna vera soluzione. Almeno un atteggiamento più amichevole ci permette di avvicinarci un po’ di più a queste cose, in modo più aperto, ricettivo, pacifico.
Prendiamo qualcosa di pratico, come il dolore fisico, per esempio. A chi piace il dolore? Se piace il dolore allora vuol dire che si è masochisti. A nessun essere senziente che abbia sensazioni, a nessun essere cosciente, sia esso un essere umano o una zanzara, piace il dolore. E’ una cosa istintiva allontanarsi dal dolore! Infatti, se vi fate male, se mettete il dito sul fuoco, non vi fermate un attimo a pensare: “Fa male, dovrei spostare il dito”. E’ un riflesso automatico. A volte, in realtà, non si registra immediatamente il dolore, ma c’è un riflesso e poi “ahi, mi sto bruciando il dito”. All’inizio c’è un tipo di riflesso automatico.»
Il Corpo più intelligente della Mente
«Io ho questa teoria – penso che sia più di una teoria, un credo forse – che il nostro corpo sia molto più intelligente della nostra mente. Non che potrebbe superare un test di intelligenza, ma voglio dire che il corpo è incredibilmente semplice. La mente è così complicata che deve passare attraverso tutte le diramazioni nervose per rendersi conto della situazione. “Ehi, ehi, il dito sta bruciando!”, mentre invece il nostro corpo semplicemente risponde.
Una volta ebbi un piccolo incidente in montagna. Stavo percorrendo un pendio roccioso molto ripido e scivolai. Improvvisamente scivolai giù senza controllo, sempre più veloce, verso il precipizio. Mentre scivolavo giù il mio cervello pensava a come uscirne. Ma separatamente dal processo del pensiero, per un qualche motivo, il mio corpo rotolò verso il lato della roccia e, scivolando sul bordo di questa, atterrò sull’unico punto pianeggiante di tutta la zona – solo grande abbastanza per i due piedi!. Mi fermai immediatamente e rimasi incredulo. Cosa?! Non avevo neanche minimamente pensato di dire al mio corpo di rotolare proprio là. Ma in qualche modo esso lo aveva fatto automaticamente e io rimasi lì un po’ tremante, con una specie di meraviglia incredula.
E’ spesso così: quando siamo messi veramente alle strette, quando la nostra mente non può più pensare, il corpo in qualche modo sa cosa fare. E molte volte queste situazioni ci mostrano che c’è un altro modo di rapportarci alla realtà. Se rimaniamo a pensare secondo la nostra solita mente, rotoleremmo senza speranza verso il precipizio, e addio! Ma c’è un modo diverso di rapportarci alle cose.
Lo stesso succede con le situazioni cosiddette “negative” o “spiacevoli”. Ad esempio, notando un dolore particolare nel nostro corpo, se cerchiamo di vederlo in un modo nuovo, se siamo capaci di guardarlo con più concentrazione – il che significa che la mente non turbina tra tutti i vecchi ricordi che questo suscita, che non fantastica su che cosa potrebbe succedere – forse allora possiamo cominciare a farne esperienza in modo diverso. E, se a questo aggiungiamo un atteggiamento più aperto, pacifico e amichevole, possiamo cambiare completamente la prospettiva con la quale ci rapportiamo a queste cose.»
Realtà Soggettiva
«Quello che succede è che noi di solito discerniamo la realtà in modo alquanto soggettivo. Nella realtà non c’è piacevole o spiacevole intendo nella vera realtà. Ognuno di noi si forma la propria personalità: “Io sono colui il quale dice che è spiacevole, io sono la persona che dice che è piacevole”. E’ così che si stratifica la personalità, che si accumula il passato: un ammasso di cose che sono piacevoli e spiacevoli, e poi continuiamo a rinforzarlo, ad alimentarlo. E quando in qualche modo c’è la minaccia che vengano intaccate alcune di queste cose, ecco che emerge la resistenza. In questo modo stiamo solo creando un nemico, il nostro nemico e tutta questa cosa è nostra nemica. Poi vogliamo combatterlo, eliminarlo, magari distruggerlo, bruciarlo, seppellirlo, nella speranza di trovar pace.
Tuttavia, se riusciamo ad avere un atteggiamento più calmo, alcune di queste cose possono venire a galla e possiamo vederle in modo diverso – cioè possiamo vederle come realmente sono. E quando iniziamo a vederle come realmente sono, senza tutta la parte soggettiva, tutta la colorazione soggettiva, che ci fa esclamare:”E’ una minaccia per me. Mi fa male…” quando le vediamo invece dal punto di vista: “E’ solo un pensiero, è solo un ricordo, è solo una sensazione, una impressione”, esse perdono il mordente emotivo personale. O almeno riusciamo in qualche modo a neutralizzarlo, perché la loro intera natura è basata sul rapporto che abbiamo con esse. Per esempio se notiamo che sorge qualcosa, tipo un dolore fisico, non appena diciamo “dolore” o “sono io e il mio dolore”, rimaniamo bloccati in questo rapporto dualistico – io e il mio dolore. E il nostro solito modo di agire è cercare di liberarcene: voglio liberarmi del mio dolore. Naturalmente ciò è alquanto assurdo – come posso liberarmi del mio dolore, che è me? – E questo tipo di lotta continua.
Ma se lo guardiamo con consapevolezza allora è un’altra storia. Prima di tutto non ci identifichiamo con esso, “è il mio dolore.” C’è una sensazione particolare che avviene proprio in questo momento, in questo luogo, e a un livello che quanto meno taglia fuori i ricordi e le associazioni che abbiamo costruito attorno ad esso.
E se spunta un nuovo “vecchio” dolore, diciamo che è proprio come l’ultima volta che è successo. E così veniamo presi in questo ripetere gli stessi vecchi schemi basati sui ricordi, non su quello che succede ora – in questo momento, in questa particolare sensazione, in questo luogo particolare, in questo particolare stato mentale.
La prima volta che sono stato a Sri Lanka avevo una piccola capanna in un monastero. Arrivammo in due e c’erano due capanne, così tirammo a sorte e io ebbi la capanna migliore, quella che aveva le zanzariere alle finestre. Fu un grande successo, perché ci trovavamo in una depressione circondata da acquitrini per cui c’erano un sacco di zanzare. Così pensai “Ah, questa volta, tanto per cambiare, sono stato davvero fortunato” Così me ne andai nella capanna e pensavo di essere al sicuro dalle zanzare. Ma il problema con le zanzariere è che ne tiene fuori molte, ma quando una riesce ad entrare non può più uscire. Così arrivò la sera e io chiusi tutte le porte e le finestre e pensavo di essere al sicuro. Stavo lì seduto e a un certo punto “zzzzzzzzzzzz” – una zanzara! E naturalmente, visto che era la mia prima esperienza con le zanzare pensai, “zanzare uguale malaria”. Così quando questa cosa volava in giro per la stanza, andava bene. Ma quando non la sentivo più volare, sapevo che si era posata da qualche parte, probabilmente sopra di me. Be’, non c’è bisogno di dire che quella notte non chiusi occhio. Mi sedevo solo per qualche minuto e finché la sentivo volare andava bene, poi si fermava e io scattavo in piedi, e poi ricominciava a volare…
Non potei dormire per l’intera notte e tutto a causa di una zanzara. Il mattino seguente lo raccontai al mio amico. Lui non aveva zanzariere nel suo alloggio. Disse: “Io non ho avuto alcun problema a dormire”. E allora io dissi: “E la malaria?” E lui “Qui non ci sono zanzare della malaria.” Era un monastero buddhista e io ovviamente non potevo uccidere le zanzare, anche se loro potevano uccidere me con la malaria, l’infarto forse, o che so io.
Ma proprio questo particolare modo di pensare ci può creare molta sofferenza in più. Più in là imparai, dopo molti anni, varie lezioni sulle zanzare. Qualcuno di voi è stato in Thailandia? Posso darvi una copia inedita del mio libro “La vita segreta delle zanzare”. Se lasci che la zanzara ti punga, lei ti punge una volta e vola via, basta, puoi di nuovo ritornare a dormire. Ma la preoccupazione, la preoccupazione di essere punto mi teneva sveglio tutta la notte.
Ma se possiamo avere un atteggiamento più aperto verso alcune delle cose che consideriamo negative o spiacevoli, cambia completamente tutta la situazione intorno a noi. E il punto è che ciò che abbiamo definito negativo è relativo al mio punto di vista – al mio ego, in altre parole. Così quello che succede è che quando ci imbattiamo in una situazione spiacevole e diciamo “Oh, ho un problema”, non appena lo abbiamo definito così, è finita, abbiamo racchiuso e solidificato l’intero flusso della realtà.»
Nemici benevoli
«Quello che ci dice la presenza mentale è: ci sono sensazioni. Queste sorgono e svaniscono. Vanno e vengono. Sorge una sensazione e dici “Ahi! fa male” e piuttosto che lasciare che termini, che percorra il ciclo della sua esistenza, cerchiamo di afferrarla con la nostra mente, ci identifichiamo con essa e diciamo “Ah questo è doloroso. Devo occuparmi di una situazione dolorosa.” E veniamo bloccati da questo rapporto, e il più delle volte è proprio questo il vero problema questo ” io e il mio problema, io e il mio problema”.
Se possiamo cambiare il nostro atteggiamento, per esempio avere un atteggiamento un po’ più aperto e pacifico, quello che succede è che, giacché <io e il problema> significa <io e il nemico>, per essere amichevole devo cambiare, devo essere diverso. Cambio. Se si cambia, anche il problema del nemico cambia.
Se sei amichevole con i tuoi nemici cosa succede loro? Semplice! Sono solo nemici a metà! Ma quando li definiamo nemici, rimangono tali. I nemici che vediamo acquistano forza proprio perché guardiamo tutte le cose negative che ci sono in loro: sono gli esseri più brutti, più sporchi, peggiori, ecc, ecc. Ma se cambiamo atteggiamento, e siamo almeno un po’ più amichevoli nei loro confronti, dicendo “Be’, anche loro sono esseri umani. Forse hanno anche degli amici, può darsi che abbiano anche un cagnolino, o anche un gatto nero, come il nostro.” Allora, improvvisamente, non sono più acerrimi nemici. Insomma, non è che ci devono piacere per forza. Possono avere ancora i loro aspetti negativi. Ma non sono cattivi al cento per cento, negativi con tutto quello che ne consegue. E parlando praticamente, forse sono ancora per il novanta per cento nostri nemici, ma il dieci per cento cambia, e allora c’è la possibilità di rapportarci in qualche altro modo. Un dieci per cento di possibilità d qualcosa di diverso.
E lo stesso tipo di relazione esiste con il cosiddetto “spiacevole”. Abbiamo creato questo “Sono io”, siamo rimasti aggrappati a questo “io” come ad una certa persona che ha questo dolore, questo problema. Ci identifichiamo con questo ed è fatta. Il problema è là. Dobbiamo anche accettare alcuni aspetti alquanto strani della natura umana – e ci fa persino piacere. Almeno sappiamo chi siamo. Se io ho un problema, so chi sono – sono quello con il problema!
Tuttavia avere un atteggiamento più amichevole verso il problema, almeno lo apre, gli dà più flessibilità. E se possiamo sviluppare questo atteggiamento, ne vediamo i risultati, ne vediamo i benefici, e questo può aumentare e dare molta più flessibilità nell’interazione. Voglio dire, è un po’ troppo idealistico dire “Be’, in realtà non c’è un “io”, quindi non c’è nessun problema. Ma si può arrivare a un semplice “ahi, fa ancora male.” e basta Alcune di queste cosiddette cose negative sono potentemente alimentate dai nostri ricordi.»
Cambiamento amichevole
«Se possiamo continuare a praticare questa benevolenza o amicizia, veramente cambieremo. Il nostro ego è quello che vuole controllare e liberarsi di questo o di quello, così da rimanere con la sua isoletta di controllo. Ma per poter essere in grado di essere in pace e in amicizia con tutte le cose bisogna abbandonare la propria posizione egoica e lasciare che tutto sia così com’è.
Chi lo può fare? Voi lasciate che le cose siano così come sono? “Sì, bene, ma…. non è molto carino, non mi piace,……..” Ciò non significa che bisogna essere d’accordo con tutto e che tutto sia meraviglioso. Ma, vedete, ogni cosa ha il suo posto. Anche ciò che è sbagliato, ciò che è cattivo ha il suo posto. Non stiamo dicendo che “il male è buono”. Sarebbe ridicolo. Ma si vede che ha un suo posto nella trama della realtà. Solo quando effettivamente si riconosce che c’è un errore, allora si può iniziare a correggerlo. La gente dice che non dovrebbe essere in questo modo, non ci si dovrebbe uccidere l’un l’altro. Be’, spiacente! Se ci limitiamo ai “non si dovrebbe” quando iniziamo a cercare di cambiare la situazione? Se sappiamo riconoscere che, be’, ci si uccide l’un l’altro, allora possiamo considerare il da farsi. Perché ciò accade? Non ci si uccide per magia come in una favola. C’è una profonda radice che causa questo. E noi possiamo riconoscerla, e ciò significa essere aperti a quella realtà piuttosto che dire che non dovrebbe essere così, che non lo si dovrebbe fare – ma si fa.
La stessa cosa succede con i dolori del corpo, “Non dovrei avere questo dolore”. La realtà e la consapevolezza dicono: “Ma ce l’hai” E allora ribattiamo, “Già, ma non dovrei averlo,” Ma questo è quello che c’è ora, in questo momento (qui non si sta dicendo che sarà sempre così). Il solo aprirsi a questo, lo cambia. Perché era lì, nella nostra mancanza di consapevolezza. Il nostro inconscio lo sapeva, ma noi non lo volevamo sapere. E’ lì. E la nostra mente inconscia sa che c’è – sa che c’è tutto questo, tutta questa negatività, tutte le parti oscure in noi. La nostra incoscienza fa del suo meglio per tenerci nascosto tutto questo. Così stanno le cose. Ma se possiamo portarlo alla coscienza, è alquanto diverso – non rimane nascosto e congelato. Quando lo si porta alla coscienza lo si vede in modo diverso. Quando alcune delle cose alle quali noi ci aggrappiamo cominciano ad apparire alla coscienza, si scongelano ed entrano nel flusso della realtà. E molte di queste cose non hanno una sostanza propria, è solo la nostra mente che ci si aggrappa.
Con lo sviluppo di una maggiore concentrazione e chiara consapevolezza possiamo rimanere ad osservare i pensieri confusi, i pensieri di rabbia, di frustrazione. Essi generalmente sorgono e scompaiono. Questa è la natura della mente. La maggior parte della gente se vede un pensiero di rabbia pensa, “Oh, liberatene! Svelto, nascondilo!” E quando si fa così, lo si rinforza, gli si dà nuova vita, lo si trattiene. E poi rimane lì. Facendolo entrare nella nostra coscienza, ha la sua durata di vita: sorge e passa, proprio come il respiro. Viene e va.
Il punto, però, è che noi di solito abbiamo bisogno di un atteggiamento più aperto, ricettivo, pacifico verso queste cose, invece che mettere in atto la nostra solita reazione che è quella di giudicarle, di manipolarle, di farne qualcosa. Ecco perché se abbiamo un certo grado di concentrazione, quando la mente è un po’ più raccolta e stabile e calma, non butta fuori tutte queste cose. La benevolenza ci permette di avvicinarci alle cose, di vedere come realmente sono. La maggior parte delle volte sorgono quelle cosiddette spiacevoli perché le si tiene lì, ferme, in una idea fissa, in un ricordo fisso.»
Nessuna cosa
«Quando analizziamo più in dettaglio, cosa c’è veramente nella realtà? Non c’è alcuna reale sostanza al di fuori della memoria? Quanto peso ha la nostra memoria? Che forma ha la nostra memoria? possiamo fare sorgere le nostre memorie e metterle davanti a noi? Ma se le teniamo nella mente, sono piuttosto pesanti, vero? Quando le facciamo sorgere, dove sono? Possiamo mettere tutti i nostri ricordi in questa stanza e ancora non sarebbe completamente piena. Ma se con il nostro atteggiamento ci aggrappiamo ad essi, diventano molto pesanti.
L’intuizione del Buddha fu che tutti i problemi non sorgono da soli, ma perché ci teniamo aggrappati ad essi. Li tratteniamo, li afferriamo, restiamo attaccati, e questa è l’origine di tutta la nostra sofferenza. Ma il punto è che questa è anche una reazione fondamentale, la reazione fondamentale dell’ego. L’ego è tutto qui, esiste perché ha qualche cosa alla quale aggrapparsi. All’epoca buddhista c’erano vari filosofi che si chiedevano, “Com’è questo ego?” O per usare un termine spirituale: “Com’è l’anima?” C’erano tutta una serie di teorie su questo – è un piccolo seme al centro del nostro cervello, o dietro il cuore. Il Buddha usava la pratica della meditazione, non il filosofeggiare, usava la meditazione per vedere chiaramente – “Allora, che cosa è l’anima? Guardiamola! Investighiamola!”, senza credere ad alcuna teoria su di essa o ad alcuna filosofia. Guardiamola, investighiamola con chiarezza. E mentre investigava la natura dell’anima, dell’ego, non trovò niente. Questa è chiamata “illuminazione”. Semplice. Facciamolo di nuovo. Il corso è terminato!
Ma quanti di noi possono guardare con chiarezza la natura del senso dell’io e non fermarsi in alcun luogo? Voi dite “Be’, va bene, io non sono il mio corpo. Si, certo, ma sono una mente intelligente!” Ecco, non riusciamo a rinunciare a questo.
E’ facile pensare, teorizzare: bene, il corpo, sì. Ma poi: chi è che sta pensando al corpo? C’è questa piccola mente da qualche parte che dice. “Sì, è tutto molto ragionevole, sì.” Ma anche la mente razionale sta lavorando. Perché è tutta una creazione, una cosa condizionata, condizionata dalle nostre regole logiche, dalla nostra cultura. E con la pratica della meditazione di visione profonda cerchiamo di risvegliare questo nuovo modo di vedere. Il modo di vedere che viene dall’esperienza diretta. Si tratta di consapevolezza, di un vedere consapevole, non di ragionamento, non di logica, non di concetti, ma di una consapevolezza che vede ciò che sta realmente accadendo.»
Consapevolezza
«Naturalmente per molte persone anche questa consapevolezza è parte integrante del loro ego. Quando ci concediamo di vedere soltanto ciò che vogliamo vedere, ciò che ci fa comodo, questa non è vera consapevolezza, è una consapevolezza con una “c” minuscola, una consapevolezza schiava del nostro ego. Ma con gli esercizi di meditazione possiamo accrescere questa consapevolezza, possiamo darle più potere autonomo. Iniziamo con “Va bene, sto sviluppando consapevolezza” Questa è la piccola consapevolezza. Ma questa parola che io traduco con consapevolezza sapete che cosa significa? Per saperlo bisogna farne esperienza personalmente. In Pali si chiama “sati“. E ci sono molti tipi diversi di questa “sati”. La sua radice è “ricordare” Si tratta proprio di ricordare nella maniera più semplice. Ad esempio ricordare di tornare al respiro, ricordare di tornare al corpo. Poi c’è quello che si direbbe un livello un po’ più avanzato di concentrazione. Non solo ricordarsi di tornare, ma effettivamente farlo. Può succedere a volte abbastanza spontaneamente. Non appena la mente diventa un po’ più chiara, si ritorna al respiro. Non c’è bisogno di ricordarsene “Oh, sì. Che cosa faccio qui? sì 1993, sì questo è Kandersteg, sì la meditazione, ah sì!, certo, sì, respirare in modo corretto.” E’ lì! Don! – la campana suona. Allora ci si ricorda di tornare molto più velocemente.
E poi c’è il livello di ciò che chiamo “consapevolezza”. La consapevolezza è molto più flessibile. Tutti noi abbiamo un certo grado di consapevolezza. Possiamo salire le scale, scenderle, trovare il bagno e cose simili. Abbiamo un certo livello di consapevolezza anche se le luci non sono accese. E può essere sviluppato, non è vero? Oltre ad avere consapevolezza di dove sono le scale, si può avere consapevolezza delle sensazioni fisiche nel proprio corpo. E forse, in un paio di giorni, la si può migliorare sensibilmente e la nostra consapevolezza può aumentare.»
Io e il mio controllo
«Noi diciamo “aumentare la auto-consapevolezza”, che nel Buddhismo è consapevolezza del corpo, della mente, delle sensazioni. E se ci sforziamo un po’, partendo per il primo gradino da un livello egoistico (io sto sviluppando la mia consapevolezza), una volta che questa si è messa in moto, diventiamo consapevoli di certi aspetti, per esempio del corpo, dei quali prima non ci accorgevamo. Notiamo sensazioni particolari, stati mentali particolari, sentimenti particolari che prima notavamo solo se veramente attiravano la nostra attenzione o se erano veramente interessanti e potevano esserci utili.
Appena notiamo queste cose vediamo che, “Ehi, questo corpo va avanti senza di me. Non ho bisogno di stare attento: piede muoviti lì, gamba vai là, braccio vieni qui!” Ti accorgi che “Ehi, funziona comunque. Posso anche addormentarmi!” E noti che la maggior parte delle attività del corpo avvengono senza alcuna interferenza da parte tua – il cibo viene digerito, la respirazione avviene, i capelli crescono, si invecchia, ecc. Accade automaticamente.
Siamo coscienti del nostro corpo, almeno entro la sfera limitata del nostro ego, “Be’, perbacco, controllo questo corpo”, per cui possiamo dire: “Allora braccio, muoviti! Wow, guarda quanto sono potente, posso muovere il braccio.” Ma agli scienziati ci sono voluti anni per far fare questo a un robot! Io posso sedermi, muovermi, ballare, cantare (be’, non da monaco).
Ma poi ci sono altre cose…. Va bene, puoi muovere il braccio, ma puoi dire “Digestione fermati, smetti di digerire!”? Forse potrebbe essere utile se si potessero fare alcune cose del tipo “Peli, smettete di crescere! Risparmiamo il rasoio!”
Ma quante volte guardiamo i limiti del corpo? Di solito guardiamo solo le cose sulle quali abbiamo controllo. Se il corpo si ammala, non vogliamo ascoltare, non vogliamo sapere niente, “Non sto male, avanti, andiamo.” Ma alla fine dobbiamo accettare, “Oh, sono malato, non ce la faccio”. Riscontriamo i limiti del nostro controllo sul corpo, direi solo in questo tipo di situazioni critiche.
Nella storia del Buddha, fu la vecchiaia, la malattia e la morte che egli dovette affrontare, e non c’era soluzione. Egli chiese alla gente cosa fossero la vecchiaia, la malattia e la morte. Ma che significa “Che cosa è” – succede a tutti. E allora, non c’è alcun rimedio? Be’, no, spiacente. Perbacco! La vita allora non è così rosea, dopo tutto! Meglio avere una buona pensione. Ma furono proprio questi limiti del senso dell’ io che portarono il Buddha a indagare, a investigare – ah, l’io non è onnipotente, non è la realtà ultima, non dura per sempre, ha anche lui i suoi limiti.
Per alcune persone all’inizio è un po’ uno shock. Quando vediamo a 40 anni i primi capelli grigi, è un po’ uno shock, ma ci facciamo l’abitudine. E poi ci adeguiamo alla situazione, si fanno le opportune modifiche e si rientra nel regno dell’io: ora ci troviamo a nostro agio. Ma quando iniziamo a vedere realmente questi limiti, allora impariamo a vedere più chiaramente qual è la vera natura di questo corpo, a vedere chiaramente ciò che è. Ciò non vuol dire che ci dobbiamo fare venire la depressione, o irritarci – è semplicemente così. E questo significa essere più in pace con la propria natura.
A volte alcune esperienze che abbiamo avuto in precedenza e che fanno parte dei nostri ricordi, si sovraccaricano pesantemente di contenuti emotivi. E dire di “aprirsi a loro” è un po’ ottimistico perché aprirsi ad essi, vuol dire aprirsi anche a tutta la negatività che vi abbiamo costruito sopra. Ma se cambiamo atteggiamento e diventiamo più pacifici nei confronti di queste cose, più tranquilli nei confronti di tutta la negatività che portano con sé, allora questo ci permette di aprirle, di vederle per quello che realmente sono.
Quindi che succede? Se potete veramente aprirvi a ciò che è spiacevole, alle situazioni cosiddette negative, che cosa succede? A volte se riusciamo ad essere più benevoli verso le cosiddette esperienze spiacevoli, queste cominciano ad aprirsi, si aprono come una nuvola. Non sono più tanto solide. Sono solo apparentemente solide, perché siamo abituati ad aggrapparci ad esse, a trattenerle. Per essere aperti bisogna allentare la presa, il controllo. E questo ci permette di diventare un po’ più flessibili. Prima, quando guardavamo il dolore, avevamo soltanto una risposta – “Ahi!” Ma ora se lo guardiamo di nuovo vediamo che ci sono diversi tipi di “Ahi!”, diversi tipi di dolore, per così dire. Non è più tanto semplice. E dobbiamo anche accettare il fatto che abbiamo i nostri limiti. Non significa che dovete rimanere qui seduti fino a domani, “Non è dolore, comunque. E’ solo benevolenza, pace, apertura…” questo viene dalle nostre idee piuttosto che dalla nostra esperienza.
Tutto ciò è qualcosa con cui possiamo lavorare. Non è una soluzione magica. Perché alcune persone pensano, “Ah, ora ho la formula magica per liberarmi di tutte le mie sofferenze!” Oh, oh. Ecco di nuovo l’io che parla. L’io sta nuovamente affermando se stesso per impadronirsi dei nostri tentativi di apertura e di amicizia. Se c’è il coinvolgimento dell’io, le cose non possono funzionare veramente bene. Perché per essere pienamente aperti bisogna arrendersi completamente. La vera benevolenza esiste solo quando ci poniamo al di fuori dei confini del nostro io, abbandoniamo le identità del nostro io, le definizioni del nostro io. Bene, nella pratica questo succede poco a poco. Più sviluppiamo benevolenza e più allentiamo il controllo del nostro io, passo dopo passo.»
Irragionevolmente amichevole
«In uno dei libri post-canonici c’è una storia su quattro persone sedute su una panchina. Tu, il tuo migliore amico, una persona che ti è indifferente e il tuo peggiore nemico. Siete seduti e state bevendo un te. Il tuo peggiore nemico no, però. No. Lui beve latte acido! Degli assassini arrivano e dicono che devono sacrificare uno di voi. Tu devi scegliere una di queste quattro persone perché venga uccisa. Bene, chi sceglieresti? Questo è un grande dilemma morale, non è vero? Puoi scegliere te stesso e dire, “Be’, io sono così altruista e santo. Prendete me!” O potresti dire, “Bene, prendete il mio peggiore nemico. Non vale niente comunque. Ripulite la terra da quest’individuo” E la persona indifferente? Non è nessuno di speciale. O potresti essere veramente generoso, “Be’, io non posso proprio andare, sto prendendo una decisione, quindi prendete il mio migliore amico, è come se prendeste me.”
Qui, con le risposte che danno le persone, si potrebbe fare un test di personalità. Allora, chi scegliereste? Ve l’ho detto che questa era difficile – magari lo rimandiamo a domani? Deve venire dal cuore, una decisione presa col cuore perché è una cosa seria. Potete lasciare le vostre risposte sul mio sedile e per favore mettete il vostro nome, così so da chi devo stare lontano, o con chi, forse, sedere sulla panchina. Ma vi do un suggerimento: non ci arriverete pensandoci. La risposta non è tra quelle che si possono pensare, è impensabile. Così è meglio che aspettiamo fino a domani.
Se continuiamo con questa pratica di benevolenza amorevole può succedere che arriviamo ad una esperienza che è completamente inaspettata, completamente irragionevole, illogica, perché trascendere i limiti dell’io. Per essere veramente amorevole verso il proprio peggiore nemico, verso le cose che consideriamo le più spiacevoli, bisogna cambiare. Bisogna abbandonare tutti i propri punti di riferimento, tutte le situazioni a cui ci teniamo aggrappati. E poi il risultato è impensabile.
Nella storia di prima, la risposta impensabile, se veramente si pratica la benevolenza amorevole ad un livello molto alto, è che non puoi scegliere nessuno dei quattro. L’amorevolezza è sviluppata così ampiamente che non si fa più alcuna discriminazione tra le quattro persone, si è completamente aperti e amichevoli verso tutti loro, in egual misura – e persino anche verso gli assassini! Vedete? Ve lo avevo detto che era impensabile.
Possiamo applicare tutto ciò alla pratica. Per prima cosa cominciamo a vedere la nostra resistenza, anche la resistenza ad essere amorevoli. C’è il cercare di essere benevoli nei confronti della resistenza, ma c’è la resistenza ad essere benevoli. Dopo alcuni giorni di pratica qualcuno è venuto da me e mi ha detto: “Non posso proprio essere amorevole. Non ne sono proprio capace”. Così vi do un suggerimento che vi può essere veramente di aiuto: forse bisogna prima perdonare, perdonare prima di potere essere amorevoli. Perdonare significa ricevere pienamente questa esperienza senza giudicarla, riceverla integralmente per quello che è. Quando siamo in grado di riceverla interamente per quello che è, allora la possiamo lasciare andare – perché l’abbiamo assorbita, l’abbiamo accolta, quindi non abbiamo più bisogno di trattenerla. Se non la riceviamo pienamente, se non ci apriamo ad essa, se non la assorbiamo, rimaniamo con il nostro giudizio su di essa e finiamo per provare una giusta indignazione. Questo deriva dalla nostra mente razionale basata sull’io – “Sì, posso perdonare, è bene perdonare. Ma loro hanno fatto questo, e non è giusto! Non lo dovrebbero fare, non è giusto, è sbagliato, dovrebbero fare così” Ma il punto è che, in un certo senso, è già successo, è ormai cosa fatta. Così forse dobbiamo perdonare, ricevere, assorbire quella particolare esperienza, quella particolare situazione, prima di potere cominciare nuovamente. Questo è particolarmente vero per quanto riguarda il passato – non potremmo mai cambiare il passato. L’unico vero beneficio che possiamo trarre dal passato è quello di imparare da esso, e magari non ripetere gli stessi errori. Ma dobbiamo veramente aprirci al dolore e al torto e alle ingiustizie che sono successe. Aprirsi ad esse, riceverle, non significa che dobbiamo essere d’accordo o che ci devono piacere. Questo è quello che è capitato prima. Ricominciate di nuovo, da adesso.»
Benevolenza universale
«Questa pratica della benevolenza – vorrei sottolineare – è l’esercizio di meditazione più utile dell’intera pratica di meditazione. Quando le persone incontrano delle difficoltà nella pratica, la soluzione più semplice e più pratica è quella di avere più amorevolezza, più serenità, più apertura e ricettività nei suoi confronti. Così dovunque ci sia un problema, il problema non sta nel problema in sé. La vera difficoltà è la relazione che abbiamo con esso. Fondamentalmente è “Io” (soggetto) ho un “problema” (oggetto). Se manteniamo questa posizione allora soggetto e oggetto si faranno guerra finché uno dei due avrà il sopravvento – io conquisto il problema o il problema conquista me! Con un atteggiamento più amichevole e più pacifico, tuttavia, possiamo almeno convivere in pace. E forse, se sviluppiamo ulteriormente questo atteggiamento, possiamo stabilire una relazione completamente nuova. Cioè, quando si cambia e si diventa aperti, anche il problema cambia! La benevolenza implica una apertura, un ammorbidimento. E poi vediamo che anche il problema si apre e diventa più morbido. E più ci apriamo e ci ammorbidiamo con amorevolezza, più il problema si apre e si ammorbidisce – si apre e si ammorbidisce fino a che il soggetto e l’oggetto si dissolvono, si amalgamano nell’amorevolezza (è possibile!). Vi è un detto: “Con l’amore si conquista tutto”.
Ma anche in questa pratica dobbiamo lavorare sodo. Non è qualcosa che avviene così facilmente, abbiamo tutto un bagaglio di abitudini di sopraffazione dell’io. Così a volte sembra un po’ folle essere aperti con le cose che non ci piacciono, con le cose che troviamo spiacevoli. Ma se le vediamo come l’apertura di una dimensione nuova dalla quale relazionarci, acquistiamo fiducia nel cambiare il nostro atteggiamento e vediamo quello che veramente sta succedendo in modo molto più chiaro. Ecco perché lo trovo utile per la meditazione di visione profonda. Per essere in grado di vedere chiaramente, dobbiamo poterci avvicinare con un atteggiamento amichevole, cordiale, per vedere quello che veramente c’è. Non si può vedere niente chiaramente se è lontano e coperto da una nuvola di resistenza.»
Distrazione benevola
«Se riuscite a essere calmi anche quando la mente si distrae, allora la mente distratta non è un problema. Ci sono due modi di relazionarsi alla mente distratta. Alcune persone pensano che non bisogna avere una mente distratta e lottano contro di essa (e la mente si distrae ancora di più!), altre riescono a rimanere più calme nei suoi confronti. La mente distratta è lì ma non c’è conflitto con essa. Capita a volte che la mente sia distratta, e allora perché prendersela?
E quando si diventa più benevoli nei suoi confronti, inizia a dirci i suoi più profondi segreti, proprio come fa un amico fidato. La mente distratta è solo una faccia della mente, e neanche la vera faccia. Ma finché non avrà fiducia in te, finché non sa che non sarà criticata, condannata e aggredita, non ti confiderà i suoi più reconditi segreti. Se ci si rapporta con amicizia nei suoi confronti, le si permette di rilassarsi, di non dovere mantenere la sua “facciata” particolare e di trasformarsi in qualche cosa di meravigliosamente diverso. Noi non sappiamo che cosa sia, ma siamo in pace anche con essa.
Ci sono anche diversi tipi di pace. C’è una pace “lontano da”, pace senza disturbi, quando i fastidi non ci sono più ed è tutto tranquillo. Ma quello di cui parlo è la “pace con disturbo”, essere in pace con il rumore, essere in pace con il dolore, essere in pace con la mente distratta – è un tipo diverso di esperienza. E in pratica, quante volte possiamo vivere veramente senza fastidi? Ce ne andiamo nella pace della montagna, facciamo tranquille passeggiate, “Oh, tanto tranquille”, finché uno di questi jet svizzeri non ci fa saltare in aria: Wrooooaammm! Oppure qui, specialmente in primavera, è un posto particolarmente buono per il risveglio della consapevolezza. Se si fa una passeggiata su per questo sentiero, scendono un mucchio di piccole slavine. Si cammina in un sogno ad occhi aperti, e poi Craaaash! Questo è un tipo diverso di pace.
La meditazione di visione profonda significa vedere le cose per quello che realmente sono. Quando si vedono come realmente sono, si può essere in pace con loro. Qualsiasi cosa ci sia va bene, è proprio così com’è. Non ci costruiamo sopra sofferenza e complicazioni. Ma nella pratica è diverso. E’ un tipo diverso di mente distratta. Quando siamo in pace con il dolore, esso è ancora lì, ma è un tipo di dolore diverso – un dolore morbido, pacifico. Cercate di sviluppare un atteggiamento più benevolo, più amichevole nei confronti del cosiddetto spiacevole e vedrete da soli che cosa succede. Quella sarà la vostra esperienza.»
Possa la vostra pratica di amorevole comprensione intuitiva svilupparsi bene e portare buoni frutti. State bene.
[ Ajahn Tiradhammo – Fonte ]
© Ass. Santacittarama, 2005. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Gabriela De Franchis.