La straordinaria, quanto naturale, capacità introspettiva dei seguaci dello zen non nasce dal nulla, non sorge per puro caso, non tramonta alla prima difficoltà, ma si manifesta – perentoriamente – a seguito di un’amorevole quanto propizia disciplina. Sicché la consapevolezza che via via si palesa nell’autocoscienza si trasmuta in vero e proprio risveglio. Di tutto ciò e quant’altro argomenta James W. Heisig nell’introduzione al saggio “Se respiri, stai danzando. L’arte di arrendersi al movimento” di Annamaria Gyoetsu Epifanìa e Katia Paoletti …
«Che cos’è l’illuminazione? I maestri zen possono rifiutarsi di dare una risposta generica e astratta, sottolineando che si tratta di un’esperienza personale non descrivibile. Gli studiosi possono osservare che «illuminazione» è un termine occidentale per il quale non esiste un preciso equivalente nella tradizione zen dell’Asia orientale che preferisce parlare di visione, testimonianza, di afferrare la natura delle cose, di risveglio e, raramente, anche di luce distesa e intensa. Ebbene, che cosa si vede quando questa luce arriva?
La risposta è tanto semplice quanto sconcertante, poiché non si vede niente che già non fosse presente in precedenza. Anche se per un attimo, lo si vede in modo più chiaro di quanto lo si scorga attraverso gli occhiali delle propensioni e aspettative personali o delle convinzioni su come il mondo dovrebbe apparire. Con il tempo e con la pratica, questi lampi d’intima comprensione possono susseguirsi in maniera ravvicinata e durare per periodi più lunghi, creando uno stato d’animo diverso da qualunque altro. Una condizione in cui i dualismi e le tensioni mentali si sciolgono nella pura degustazione del momento presente, una sorta di consapevolezza dell’inconsapevolezza, ovvero ciò che la tradizione buddhista chiama nirvāna.
L’esperienza di tale stato per fortuna è meno esoterica della sua spiegazione. Al pari della pratica di inspirare ed espirare attentamente, di sedersi per meditare e alzarsi per andare avanti con la vita, la disciplina zen ha due aspetti. Ci sediamo, liberiamo la mente per inspirare dentro il mondo intero, i ricordi, la gente, i luoghi, gli alberi, le montagne e i fiumi. Si può rappresentare tale esperienza come l’ingresso in un ambiente rivestito di specchi: ovunque guardiamo, vediamo un nostro riflesso. Ogni specchio ha la sua particolarità e ci rivela qualcosa che non avevamo visto prima. Il nostro io, che siede avvolto nella propria epidermide e si preoccupa dei nostri desideri e crucci, comincia ad apparire simile a una parte recitata, un duro guscio che filtra non solo ciò che è giusto per noi, ma oscura la visione di noi stessi. Seduti immobili, inspirando ciò che passa sia pure casualmente davanti agli occhi della mente – pensieri, immagini, dolori, speranze – cominciamo a vedere il nostro sé più autentico. Ma siamo solo a metà del lavoro. La disciplina di mettere a fuoco ogni piccola cosa come negazione dell’io quotidiano e confermare un sé autentico, resta in un certo senso autocentrata. La sfida è guardare attraverso e al di là degli specchi nei quali abbiamo scorto il nostro sé autentico, affinché diventino finestre aperte all’autenticità interiore delle cose del mondo che, l’una dopo l’altra, si rivelano come sono, senza l’impedimento della preoccupazione di conseguire una saggezza, una comprensione o un’autocoscienza più grandi.
Non si tratta di tappe lungo la via che porta all’illuminazione. Essa, in realtà, non è affatto una meta né somiglia a un tesoro che si possieda o a una vetta conquistata. È solo un modo di dare luce alle cose della vita per vedere quanto più chiaramente possibile, affinché si possa fare ciò che va fatto in modo meno autocentrato. Che cosa si vede quando queste luci si accendono?
Si vedono crudeltà, ineguaglianze, conflitti, brutture – la nuda e scandalosa verità degli abusi che ci riguardano, sia quelli che la società civile condanna apertamente sia quelli che tacitamente approva. Si vedono la bellezza, la gentilezza, la speranza, la gioia – la nuda e gloriosa verità di tutto ciò che è nobile nel genere umano. Conoscere la differenza tra ciò che siamo in grado di vedere e ciò che siamo indotti a vedere richiede disciplina. Lo zen è una forma di disciplina. La coscienza ambientale del nostro tempo ci rammenta che l’illuminazione senza responsabilità è debolezza, lo zen ci ricorda che l’indignazione senza illuminazione è cecità. Non ha altro scopo se non quello di farci aprire gli occhi, affinché possiamo pensare e agire con qualche illusione in meno e un ego meno forte.»
– James W. Heisig – Nanzan Institute for Religion and Culture – Nagoya, Giappone –