L’estroversione e il dinamismo sono certamente un fatto positivo, ma quando la propria attenzione è rivolta soprattutto al futuro, al conseguimento di peculiari, pur degni obbiettivi, al punto da tralasciare finanche ciò che conta, ossia il corollario di affetti, sentimenti e simpatie, si corre il serio rischio di dilapidare ciò che di meglio la vita ha già, seppur con tanta modestia e semplicità, potuto offrirci. La lezione che la meditazione impartisce è l’esigenza di attenersi, seppur periodicamente, al presente, all’attimo, a quanto accade nel momento stesso in cui si riflette. Per realizzarsi non serve centrare imperscrutabili, futuribili mete. Ciò che conta davvero è sempre qui, ora. I lidi della consapevolezza, quelli che ciascun testimone può già contemplare, non sono così remoti, ma in siffatto medesimo luogo. Tuttavia, che significa, cosa implica, quali chance comporta cogliere l’attimo? Lo “scopo finale” della vita è, in realtà, solo l’amore. Purtroppo il potere è sempre un miraggio. Lo insegui a spron battuto posponendo di continuo il frangente in cui credi di riuscire a fermarti per beneficiare della tua dedizione, del tuo pur straordinario e ammirevole lavoro, ma il traguardo è comunque un tantino più in là, sembra persino precederti in una spirale vorticosa che alla fin fine si rivelerà una totale, inesorabile delusione. La lezione della meditazione è la seguente: il vero potere è solo spirituale, il resto è un miraggio così evanescente da non meritare il benché minimo riguardo. Amore e felicità sono sempre sinonimi. … Ma leggiamo, per esteso, l’indimenticabile maestro zen Thich Nhat Hanh …
«Per gli standard convenzionali, Frederick era un uomo potente: dirigente di successo, brillante anche sul piano finanziario, orgoglioso dei propri alti ideali. Eppure era in capace di essere davvero presente a se stesso, alla moglie Claudia o ai due figli piccoli, pieno com’era di un’energia che lo spingeva sempre a fare di più, a migliorarsi, a con centrarsi sul futuro. Quando il figlio minore andava da lui sorridendo a mostrargli un disegno, Frederick era così assorto nei suoi pensieri e nelle preoccupazioni professionali che non vedeva realmente il bambino per quel prezioso miracolo della vita che era. Al ritorno dal lavoro, quando abbracciava Claudia non era pienamente presente; ci aveva provato, ma non era davvero lì. Claudia e i bambini sentivano la sua mancanza.
All’inizio Claudia aveva sostenuto Frederick e la sua carriera; era orgogliosa di essere sua moglie, amava organizzare ricevimenti e altri eventi mondani. Come lui, era convinta che farsi strada, ottenere uno stipendio più alto e una casa più grande li avrebbe resi felici. Lo ascoltava e capiva le sue difficoltà; a volte restavano alzati fino a notte fonda a parlare delle loro cose. Stavano insieme, ma la loro attenzione non era concentrata su loro stessi, sulla loro vita, sulla loro felicità o su quella dei loro figli: le discussioni vertevano sugli affari, sulle difficoltà e gli ostacoli che Frederick incontrava al lavoro, sui suoi timori e le sue incertezze.
Claudia aveva fatto del proprio meglio per sostenere il marito, ma alla fine si sentì esausta, travolta dal suo perenne stato di stress e di distrazione. Frederick non aveva tempo per se stesso, figuriamoci per la moglie e i figli! Certo, desiderava stare con loro, ma era convinto di non poterselo permettere; non aveva tempo per respirare, per guardare la luna, per godere dei propri passi. Anche se era considerato il capo, quella che comandava era la sua brama di successo, esigendo da lui il cento per cento del tempo e dell’attenzione.
Claudia si sentiva sola. Suo marito in realtà non la “vedeva”. Lei si prendeva cura della famiglia e della casa, faceva volontariato, passava un po’ di tempo con le amiche; poi si diplomò e cominciò a lavorare come psicoterapeuta. Ma anche se quelle attività davano un senso alla sua esistenza, Claudia non si sentiva sostenuta nella vita matrimoniale. I figli si domandavano coma mai il papà fosse così tanto fuori casa, sentivano la sua mancanza e chiedevano spesso di lui.
Quando Philip, il figlio maggiore, dovette essere ricoverato per un’operazione chirurgica a cuore aperto, Claudia passò più di sette ore da sola con lui, perché Frederick non aveva potuto allontanarsi dal lavoro. Neanche quando Claudia entro a sua volta in ospedale per asportare un tumore benigno Frederick le fu accanto.
Eppure Frederick era convinto di far bene a lavorare così tanto, di farlo per la sua famiglia e per le persone che lavoravano con lui e che dipendevano da lui. Sul lavoro sentiva la responsabilità di svolgere le proprie mansioni fino in fondo; lavorare in quel modo lo faceva sentire soddisfatto e realizzato. Lo spingeva, però, anche un forte senso di orgoglio: Frederick era fiero del proprio successo, di saper prendere decisioni importanti e di guadagnare molto.
Ogni tanto Claudia gli chiedeva di rallentare il ritmo, di prendersi qualche pausa per sé e per la propria famiglia, di godersi la vita. Gli diceva di avere l’impressione che fosse diventato schiavo del suo lavoro. Era vero. Avevano una bellissima casa in un bel quartiere, con un giardino rigoglioso; Frederick amava il giardinaggio ma non stava abbastanza a casa per poter trascorrere un po’ tempo in giardino. Alle richieste di Claudia rispondeva sempre che amava il suo lavoro, che l’azienda non poteva fare a meno di lui; spesso le diceva che di lì a qualche anno, quando fosse andato in pensione, avrebbe avuto un sacco di tempo per se stesso, per lei e per i figli.
A cinquantun anni Frederick morì in un incidente stradale. Non riuscì mai ad andare in pensione. Pensava di essere insostituibile, ma l’azienda ci mise soltanto tre giorni per trovare il suo successore.
Ho incontrato Claudia in un ritiro di consapevolezza, è stata lei a raccontarmi la storia di suo marito. Anche se avevano avuto tutto in termini di fama, successo e ricchezza, non erano stati felici. Eppure molti di noi sono ancora convinti che la felicità sia impossibile senza il potere economico o politico, e sacrificano il momento presente in nome del futuro, incapaci di vivere fino in fondo ogni attimo della vita quotidiana.
Spesso pensiamo che se avessimo il potere o il successo professionale saremmo ascoltati dagli altri, avremmo tanti soldi e saremmo liberi di fare tutto quello che vogliamo. Ma se osserviamo in profondità, ci rendiamo conto che Frederick non aveva libertà né capacità di godersi la vita né tempo per stare con i suoi cari: il lavoro lo allontanava da loro. Non aveva tempo per respirare a fondo, sorridere, guardare il cielo azzurro, stare in contatto con tutte le meraviglie della vita.
Si può avere successo in campo professionale, avere potere, ed essere allo stesso tempo soddisfatti. Ai tempi del Buddha c’era un mercante molto potente e gentile chiamato Anathapindika. Era un discepolo del Buddha che aveva sempre cercato di comprendere i suoi dipendenti, i clienti e i colleghi. Essendo generoso, i dipendenti lo avevano più volte salvato da tentativi di furto; quando un incendio minacciò di distruggere i magazzini, il personale e i vicini rischiarono la vita per spegnerlo. I lavoratori lo proteggevano perché lo consideravano un fratello e un padre. L’impresa prosperava. Quando andò in bancarotta, Anathapindika non ne soffrì, perché gli amici si fecero avanti e lo aiutarono a rimettere in piedi l’azienda in poco tempo. La sua vita lavorativa aveva un orientamento spirituale. Era avveduto e di ispirazione per gli altri, dunque la moglie e i figli lo affiancavano nella pratica spirituale e nel prender şi cura dei poveri. Anathapindika era un bodhisattva, aveva un cuore grande e compassionevole.
Quello che lo rendeva felice non era la ricchezza ma l’amore: Anathapindika aveva lasciato che fosse l’amore la forza motivante che lo sospingeva avanti. Aveva tempo per la moglie e per i figli; aveva tempo per la comunità spirituale, il sangha delle monache, dei monaci e dei laici che praticavano la comprensione e l’amore. Anathapindika significa “colui che aiuta i poveri, i diseredati e i solitari”: lo avevano chiamato così perché era colmo di gentilezza amorevole e di compassione. Sapeva amare se stesso e la sua famiglia, e prendersene cura; sapeva amare la gente del suo Paese e prendersene cura. Aveva sempre aiutato le persone quando erano in difficoltà, per cui aveva tanti buoni amici.
Aveva investito nell’amicizia, nella famiglia, nel sangha, e così aveva il tempo necessario per godere delle persone care e prendersene cura. Era felice di potersi rendere utile al Buddha e alla sua comunità. Quando sentiva parlare del sangha, gli brillavano gli occhi; quando sentiva parlava dei poveri, gli brillavano gli occhi; anche quando sentiva par lare dei suoi figli, gli brillavano gli occhi.
Per me, quello che la maggior parte di noi definisce lo “scopo finale” in realtà è l’amore. Se aspiriamo solo al potere e alla fama, non possiamo essere felici come lo era Anathapindika: lui era un imprenditore per amore, l’amore era il suo fondamento, per questo era così felice.
Spesso quando intraprendiamo una professione lo facciamo per amore della nostra famiglia, della comunità. All’inizio abbiamo buone intenzioni. Poi un po’ per volta ci lasciamo prendere dalla rincorsa all’affermazione nel lavoro: la brama di successo, di potere e di notorietà scalza la nostra concentrazione sulla famiglia e sulla comunità. È quello il momento in cui cominciamo a perdere la nostra felicità. Il segreto per salvaguardarla è nutrire l’amore ogni giorno. Non lasciare che in te il successo o la brama di denaro e di potere si sostituiscano all’amore. All’inizio Frederick amava la moglie e i figli, e aveva intrapreso la sua attività con quello stesso sentimento; poi però aveva tradito se stesso lasciando che il desiderio di avere successo prendesse il sopravvento sul suo desiderio di amare. Se ripensi a te stesso e ti rendi conto che l’aspirazione al successo è maggiore del desiderio di amare e di prenderti cura delle persone care, sai di esserti incamminato sul le orme di Frederick.
Nel buddhismo si considera il potere diversamente da come lo vede gran parte del mondo. Anche noi buddhisti siamo interessati al potere come gli altri; quello che ci interessa, però, è un genere di potere che porta felicità, non sofferenza.
Di solito la gente rincorre il potere economico e politico. Molti sono convinti che ottenendo questi poteri potranno fare tante cose ed essere felici. Ma se osserviamo in profondità, vediamo che le persone che inseguono il potere soffrono enormemente. A farci soffrire è innanzi tutto quell’inseguimento, perché siamo in tanti a batterci per lo stesso obiettivo. Siamo convinti che il potere che stiamo cercando sia raro e fugace, ottenibile solo a spese di qualcun altro. E se anche lo raggiungiamo, non ci sentiamo comunque abbastanza potenti. Ho incontrato gente molto ricca, che ha fama e potere, ma non è detto che sia felice; alcuni arrivano addirittura al suicidio. Quindi soldi, fama e potere possono in qualche modo contribuire alla tua felicità, ma se ti manca l’amore non puoi essere realmente felice neanche se hai tantissimi soldi, fama e potere. […]
Alcuni anni fa, l’amministratore delegato di una delle maggiori aziende americane venne per un paio di giorni al Green Mountain Dharma Center nel Vermont a praticare con me e con alcuni monaci e monache. Una mattina mi trovavo in sala di meditazione a condurre una meditazione guidata quando lo vidi là seduto. Più tardi ci parlò della vita dei miliardari: sono pieni di sofferenza, preoccupazioni e dubbi; sospettano che chiunque li avvicini lo faccia per il denaro, per trarre vantaggio da loro, e non hanno amici. Quell’uomo aveva un notevole peso politico e grandi risorse finanziarie, ma era venuto da noi per imparare a coltivare il potere spirituale. Ho avuto l’opportunità di condividere con lui qualche insegnamento su come mantenere la calma, come respirare e camminare. Lui prendeva parte alla meditazione seduta, a quella camminata, a quella del cibo; lavava le proprie stoviglie dopo la colazione. Penso che avesse una guardia del corpo a cui non aveva permesso di accompagnarlo al monastero. Gli diedi una piccola campana, in modo che nei momenti difficili potesse praticare l’ascolto della campana, tornando al respiro e recuperando la calma. Non so se sia riuscito a portare avanti la pratica, perché era estremamente solo nel mondo degli affari, senza una comunità che lo sostenesse. Il mondo in cui vive quell’uomo è molto impegnativo e pieno di sollecitazioni, perché si muove a grande velocità.
Dobbiamo quindi riconoscere la verità che se non c’è amore o una profonda spinta motivante a mettersi ai servizio di quell’amore, per quanto ricchi o potenti, non si può comunque essere felici. Si è felici solo quando ci si può mettere in relazione con le altre persone e gli altri esseri viventi; altrimenti ci si sente soli, chiusi nel proprio mondo, incompresi dagli altri e incapaci di comprendere gli altri. L’amore è essenziale alla nostra felicità.
Questo vale non solo per le persone, ma anche per le nazioni. Molti Paesi desiderano fare progressi economici e materiali. La mia definizione di “progresso” è essere felici, veramente felici; a che cosa serve avere più soldi, se si soffre maggiormente? Si diventa vittime del proprio successo. Dobbiamo misurare il progresso in termini di vera felicità: una nazione può diventare molto ricca e sviluppata, può essere definita una “superpotenza”, ma la popolazione di quel paese può ancora soffrire profondamente. Il desiderio di ricchezza materiale diventa più importante della salute e della felicità. La gente non ha il tempo di prendersi cura di sé e dei propri cari; è un peccato. Per me si può dire “civile” una società in cui le persone hanno il tempo di vivere profondamente la propria vita quotidiana, di amare la propria famiglia e la propria comunità, e di prendersene cura.»
[ Da: Thich Nhat Hanh, “La scintilla del risveglio. Lo zen e l’arte del potere“ ]
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– Thich Nhat Hanh (macrolibrarsi)
– Thích Nhất Hạnh – Wikipedia
– Associazione Essere Pace