Nell’ambito della ricerca spirituale, la meditazione rappresenta un formidabile approccio verso la consapevolezza e la serenità. Questi appunti esplorano la pratica meditativa nell’Induismo, guidando il lettore attraverso le profondità del dhyana, o contemplazione. La meditazione, come descritta da Swami Nityasthananda, non è una semplice concentrazione, ma un’immersione consapevole in un’idea spirituale, una sorta di vera e propria identificazione. Attraverso la disciplina e la pratica prolungata, ci si focalizza su un’unica forma divina, come Rama, prassi che conduce a uno stato di meditazione profonda. Questo stato, paragonabile al fluire silenzioso dell’olio, è il preludio a stadi superiori di realizzazione spirituale, quali il samadhi, dove l’io si dissolve nell’oggetto della meditazione, rivelando la pura essenza del Sé. L’articolo invita a un’esplorazione più approfondita di questi concetti, offrendo una guida davvero istruttiva – o, per lo meno, chiarificatrice – per coloro che cercano la pace interiore attraverso la meditazione.
«Si deve distinguere tra la concentrazione ordinaria e la meditazione. Con la parola ‘meditazione’ si intende dhyana o contemplazione. Non si tratta di ordinaria concentrazione, ma di un genere particolare di concentrazione. Innanzitutto la meditazione è un processo completamente conscio, un esercizio della volontà. Poi, la meditazione significa concentrazione su un’idea spirituale, che presuppone la capacità dell’aspirante di distaccarsi dalle idee mondane. Infine, la meditazione si pratica ad un particolare livello di consapevolezza. Perciò è chiaro che la vera meditazione è uno stato piuttosto avanzato, che si acquisisce mediante una lunga pratica. E’ il risultato di lunghi anni di disciplina.
Se si pratica la meditazione su una particolare forma divina, con un particolare livello di coscienza, diciamo il cuore, si avrà un flusso continuo di pensiero sulla rappresentazione della forma divina prescelta (es. Rama), fino all’esclusione di ogni altro pensiero, anche quelli relativi alla vita di Rama e alle sue qualità. Questo flusso ininterrotto di un solo pensiero è detto meditazione.
Normalmente sperimentiamo un flusso di pensieri che attraversano la mente, collegati a vari oggetti differenti, ad eventi e persone. Se un primo pensiero è dedicato ad un certo oggetto, il successivo sarà invece diretto a un altro oggetto o persone. Nello Yoga questo stato mentale è definito sarvarthata. Invece, il flusso di pensieri simili, tutti pertinenti a un particolare oggetto di meditazione è detto ekagrata. Come già detto, si tratta di una più alta forma di concentrazione in cui possono esservi pensieri differenti, ma simili tra loro, orientati alla rappresentazione di un solo identico oggetto. Come risultato di questa rapida successione di pensieri, l’oggetto apparirà stabile e, in relazione alla profondità della concentrazione, maggiormente chiaro e vivido. Questo stato meditativo è detto ‘simile al filo d’olio’. Secondo Patanjali ‘Tatra Pratyayaikatanata Dhyanam’: un ininterrotto fluire di pensieri volti all’oggetto (di meditazione) si dice dhyana.
E’ simile al concetto di upasana del Vedanta. Sri Shankaracharya ne dà una nitida descrizione nel commento alla Bhagavad Gita: ‘Upasana, o meditazione, significa concentrarsi su un oggetto di meditazione espresso nelle Scritture, facendone il fulcro dei propri pensieri e stabilendosi in esso ininterrottamente, seguitando lo stesso flusso di pensiero in quella sola direzione – come un filo d’olio che viene fatto passare da un vaso a un altro’.
L’analogia con il filo d’olio è appropriata. Quando travasiamo l’olio da un vaso ad un altro, abbiamo un flusso costante dell’olio che non produce alcun rumore o schizzo. Ma se travasiamo dell’acqua allo stesso modo, abbiamo rumore e schizzi attorno. Se il corso dei pensieri fluisce verso l’oggetto di meditazione in un continuo ininterrotto, privo di disturbi, ci troviamo nello stato di meditazione.
Questo stato è raggiunto soltanto dopo che si sono attraversati altri due stadi della meditazione: pratyahara e dharana. Pratyahara consiste nel liberare la mente dalla frizione dei sensi. La mente è comunemente impegnata a rincorrere gli oggetti dei sensi. Quando vediamo o ascoltiamo qualcosa, la mente viene immediatamente catturata e inizia a costruire un castello di pensieri. Lo stesso quando un qualche pensiero sorge spontaneamente.
Quando sediamo in meditazione la mente costantemente si allontana dall’oggetto di meditazione, catturata dagli oggetti dei sensi. Allora ritiriamo internamente la mente dagli oggetti della distrazione e fissiamo l’attenzione sull’oggetto della meditazione. Il ritiro della mente è chiamato pratyahara. Ma la mente si rifiuta di rimanere fissa e inizia a vagare nel mondo sensibile. Di nuovo dobbiamo ritirarla dai sensi e questo sforzo può continuare a lungo, finché la mente diventa sempre più stabile e noi capaci di rimanere fissi sull’oggetto della meditazione. Questo stato è chiamato dharana.
L’oggetto della meditazione può essere la forma di una divinità, o un suono come il pranava [il suono interiore dell’Aum – ndt], o un centro della coscienza come il cuore, oppure il punto situato tra le sopracciglia, e così via. Quando la mente rimane fissa sull’oggetto della meditazione per un certo intervallo di tempo, senza essere disturbata da altri pensieri, e l’oggetto di meditazione diventa stabile e vivido, allora si può dire che la mente sia in meditazione.
Nello stato meditativo abbiamo tre elementi: l’oggetto della meditazione, il processo della meditazione e il soggetto che medita. Il soggetto è cosciente di se stesso e dell’oggetto, e possiede una certa autonomia. Ma esiste anche uno stato più elevato di meditazione chiamato samadhi, in cui solo l’oggetto si palesa nella coscienza, tanto che il soggetto perde la percezione di se stesso, assorbito dall’oggetto e dalla gioia dell’estasi. Patanjali così descrice questo stato ‘Tadeva arthamatranirbhasam svarupashunyamiva samadhih’: quando nella meditazione il soggetto perde coscienza di se stesso e si palesa solo l’oggetto di meditazione, questo è detto samadhi.
Vi è poi un grado di coscienza ancora più alto, in cui anche il solo pensiero dell’oggetto di meditazione è scomparso e il Sè si rivela nella Sua originaria purezza, privo di qualificazioni. Swami Vivekananda lo illustra con queste parole:
‘Non riusciamo a percepire il fondo del lago, perché la superficie è velata dalle onde. Possiamo gettarvi lo sguardo quando le onde si placano e le acque sono calme. Se l’acqua è torbida o agitata, il fondo non può essere visto. Se è limpida e senza onde, vedremo il fondo. Il fondo del lago è il nostro Sé; il lago è Chitta [la mente] e le onde le Vritti [i pensieri].
L’obiettivo della meditazione è conoscere la nostra vera natura, il fondamento della nostra personalità, rimuovendo gli accumuli che la ricoprono. Questo avviene per gradi, primo mantenendo un solo pensiero fino all’esclusione di ogni altro, e infine lasciando andare anche quello.
Questa breve descrizione della meditazione, alla luce del Vedanta e dello Yoga, ha lo scopo di individuare i principali aspetti della meditazione, per stimolare a proseguirne lo studio.»
Riferimenti
1. Swami Yatiswarananda, Meditation and Spiritual Life (Bangalore: Sri Ramakrishna Ashrama, 1983), 324.
2. Yoga Sutras, 3.2.
3. Shankaracharya’s commentary on Bhagavadgita, 12.3.
4. Yoga Sutras, 3.3.
5. The Complete Works of Swami Vivekananda, 9 vols. (Calcutta: Advaita Ashrama, 1-8, 1989; 9, 1997), 1.202.