Le giornate della rana zen sembravano tutte simili. Per quanto s’ingegnasse a trovare dei diversivi, la monotonia stava quasi per sommergerla. Mentre all’alba si applicava nei lavori di routine e il resto della mattinata in attività più venali, ma produttive, il pomeriggio e la serata li dedicava, sempre e soltanto, alla contemplazione del suo unico idolo, il Buddha dai mille volti e, quindi, alla meditazione.
“Che vita! – si diceva di tanto in tanto – Questa routine mi sembra quasi disarmonica e fors’anche alienante”. Sta di fatto che i mesi, come le stagioni e quindi gli anni trascorsero inclementi. Cominciò ad avvertire i primi segni dell’età, piccoli acciacchi ricorrenti, un minor entusiasmo, a volte persino rassegnazione. La rana, pur essendo ancora ammirata, si sentiva disincantata, disillusa. Le sue identificazioni erano cadute, via via, una per una. Si erano dissolte come cristalli di neve al sole ridondante dell’eterno divenire. Che le restava? Le rimaneva quel Buddha, fermo, lapidario, stentoreo, cui attribuiva ancora un’inspiegabile importanza.
Era una di quelle serate in cui le stelle sottraggono la scena a chiunque. La nostra amica sedeva, senza pensare, dinanzi all’ara delle mille stagioni. Non v’era simbolo che potesse sostituirlo, epitaffio che riuscisse a descriverlo. Il Buddha era lì, e lei, oramai, senza mente. Non pensava, non sognava, non decideva, non sapeva nemmeno se stesse ancora respirando. La quiete l’attorniava discreta, i gatti la scansavano impauriti, quando un modesto tremolio di luce si trasformò, di punto in bianco, in un brillante scorcio ultraterreno. Non più Buddha, né gatti, né panchine, né stelle. Solo lei, la rana, al cospetto di … cos’era? O meglio, chi era? Lo capì in men che non si dica. Vi piaccia o meno, cari amici, era Dio … Non vi descrivo, ve lo lascio solo supporre, quale fu mai il suo stupore.