La rana zen era alla ricerca dell’illuminazione. Per conseguirla si era recata presso i più disparati maestri. Ne aveva ascoltato gli insegnamenti e si era impegnata con tutta se stessa per tradurli in pratica. Si, la rana zen era stata sincera, ma nonostante la premura – malgrado l’estrema coerenza – non aveva realizzato nulla di pressoché definitivo, nulla di stabile, di duraturo. Certo, la sue belle esperienze le aveva avute: improvvisi lampi di gioia, repentine aperture mentali, sorprendenti sensazioni di unità, inattesi impulsi di compassione.
Per certi versi il suo mondo era già incantevole. Dovunque si recasse notava sempre il meglio. Ma le mancava qualcosa di sostanziale, o per lo meno così credeva, la costanza. Il suo modo d’essere non era fluido, procedeva a scatti …
I giorni si susseguirono ai giorni, ai mesi, agli anni, finché non si accorse che nonostante fosse trascorso così tanto tempo lei era ancora lì, ferma, immobile. Allora rivide il suo lungo tragitto, tra scuole, presunti maestri, splendidi yogi, e capì di non essersi mossa, nemmeno di un millimetro. La pseudo-identità che di fatto aveva peregrinato – cos’é che aveva trascurato? – saltellando di stagno in stagno, tra gli infiniti rivoli di coscienza che li alimentavano, era stata la sua mente, solo la mente.
Cos’era? Fu allora che si percepì come un elemento invariante, come ciò che non muta. Cadono le foglie, poi gli alberi risorgono e lei era sempre lì. Sicché si schiuse un recesso che in realtà custodiva già da sempre, che le permise di cogliere il tutto sotto una nuova luce, ossia la vera luce di ciò che sembra tutto.