Ciò che affiora nelle pieghe dell’esistenza non è sempre agevole da interpretare. La sofferenza, quando si presenta, lo fa con una tale determinazione da sembrare quasi una voce antica, che richiama all’essenziale. In quei momenti, non si tratta di risolvere o spiegare, quanto piuttosto di fare spazio. Piuttosto che rincorrere spiegazioni o cercare un conforto concettuale, la meditazione ci invita a volgere lo sguardo verso un punto stabile, un centro che osserva senza giudizio, silente ma vigile. È da lì che prende forma un’intima distanza dalle contingenze, non per eluderle, ma per rimettere ordine in ciò che appare confuso. Riconoscere che non tutto ci appartiene davvero è già un passo verso la quiete. Non si tratta di reprimere, ma di vedere con lucidità, di accogliere senza divenire complici dell’agitazione. In questo quadro, la meditazione si configura come un atto sobrio, privo di orpelli, che restituisce spazio all’essere e riduce il rumore di fondo. Non consola, ma offre una soglia, un margine sottile in cui il sentire si placa e si ricompone.
La sofferenza – di natura esistenziale – è un fatto incontrovertibile. Prima o poi si ripresenta e l’unico modo per minimizzarne le conseguenze è accettarla per ciò che è! Un modo spiccio per ricordarti che sei in primo luogo essenza. Mentre ciò che soffre è sempre la periferia tu rimani un nucleo – che se preferisci puoi indicare con il termine spirito – intorno a cui gravita il mondo delle idee e dei fatti. Un nucleo di coscienza silente e immota con cui si può familiarizzare soprattutto con la meditazione. Lo spirito non è soggettivo.
In sofferenza
Non meditare sul tuo malessere,
non contemplarlo. Esamina le circostanze con obbiettività,
con tutto il distacco possibile.
C’è una parte di te che sta soffrendo,
ma tu sei soprattutto la coscienza che osserva,
la consapevolezza che ne prende atto.
Considera il gioco che proietta le figure sullo schermo della vita.
Birilli evanescenti, facili da colpire, ma altrettanto pronti a rialzarsi,
subito pronti per riprendere a lottare.
Conclusione
Nel tessuto frastagliato degli eventi, dove il dolore talvolta appare come un messaggero scomodo ma sincero, la meditazione non elargisce soluzioni, bensì offre uno spazio in cui ogni apparenza può essere deposta. Chi dimora in tale silenzio non si identifica più con la ferita, ma osserva, respira, e torna a essere ciò che da sempre è: un centro limpido, non definibile, che non rincorre nulla e nulla respinge. E in quell’immobilità operosa, la coscienza non cerca di fuggire, ma semplicemente rimane.