Non appena s’inizia a parlare di vuoto nel buddhismo si cominciano a creare tutta una serie di congetture che poi daranno luogo a un’innumerevole progressione di presupposti, precisazioni e conclusioni che lo schiudersi della propria consapevolezza potrebbe sembrar più affine al crescente sbocciare di un fior di loto che al dipanarsi del mistero della vita. Già, perché il vuoto ha davvero, di per sé, la potenzialità dell’effimero, l’imprevedibilità dell’incommensurabile, risorse e facoltà per contingentare ogni enigma. Chiaro? Ne dubito! Qual è, in cosa consiste la praticità del vuoto nel buddhismo? La nostra non è una mera speculazione teorica, ma ogni nostro approccio e ciascuna relativa delucidazione hanno sempre lo scopo di favorire la meditazione. Thanissaro Bhikkhu spiega la questione con la concisione e la chiarezza di un maestro. …
«Il vuoto è una modalità della percezione, un modo di guardare all’esperienza. Non aggiunge nulla — e non toglie nulla — ai dati grezzi degli eventi fisici e mentali. Si guardano gli eventi che si manifestano nella mente e nei sensi senza pensare se ci sia o meno qualcosa dietro di essi.
Questa modalità si chiama ”vuoto“, perché è vuoto dei presupposti che di solito aggiungiamo all’esperienza al fine di darle un senso: le storie e le visioni del mondo che ci creiamo per spiegare chi siamo noi e che cos’è il mondo in cui viviamo. Anche se queste storie e punti di vista hanno una loro utilità, il Buddha si avvide che le domande che sollevano sulla nostra vera identità e sulla realtà del mondo distolgono l’attenzione dall’esperienza diretta di come gli eventi si influenzino l’un l’altro nell’immediato presente. Così si mettono in mezzo quando cerchiamo di capire e risolvere il problema della sofferenza».
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