Chiedere quale sia la via – dov’è la verità, come focalizzare l’essenziale di ciò che concerne la vita – corrisponde a domandarsi: dov’è che si trova l’esistenza? Senonché l’esistenza è qui, è ora, ci siamo immersi, non vi è alcuna distanza tra l’estrapolazione intellettuale di siffatti concetti e la loro, semplice, banale, a volte finanche troppo scontata, se non immediata, percezione. La sofferenza – quella psicologica – nasce spesso dalla crepa che si crea tra ciò che è, quel che vorremmo fosse e il nostro – medesimo – immaginario. Purtroppo, una volta verosimilmente prodotta, siffatta discrepanza ci rincorre – metaforicamente – finanche nei meandri più desueti e remoti dell’inconscio adoperandosi – di continuo – per ribadire l’apparente gap esistenziale … per riaffermare il proprio senso di carenza, la presupposta mancanza, una sorta d’imperfezione che perseguita chiunque, ma senza nemmeno esistere … Sicché ci adoperiamo a oltranza per creare ponti o quant’altro ci colleghi a un astratto prototipo ideale, mentre il “vero” è già qui, solo che dobbiamo realizzarlo. …
“[…] Concepire la verità come qualcosa d’esterno che il soggetto deve apprendere, è una veduta dualistica che riflette i condizionamenti propri al comune intelletto, ma che non corrisponde a ciò che afferma lo Zen; secondo lo Zen, noi viviamo direttamente nella verità e grazie alla verità, che dunque non ci può essere esterna. Hsuan-sha (Gensha) dice: «E’ come se, immersi fin sopra la testa nell’acqua del grande oceano, tendessimo le braccia a implorare acqua!». Così quando un monaco gli chiese: «Che è il mio Sé?», egli subito rispose: «Che te ne faresti, di un Sé?». In termini intellettuali, egli intendeva dire che, non appena cominciamo a parlare di un Sé, noi stabiliamo inevitabilmente il dualismo di Sé e non-Sé, cadendo così nell’errore del pensiero discorsivo. Noi ci troviamo nell’acqua, questo è il fatto; dunque rimaniamoci, direbbe lo Zen, perché se ci diamo a chiedere acqua creeremo un rapporto di esteriorità rispetto ad essa, e quel che fino ad allora era stato nostro ci sarà tolto.
Il seguente episodio va interpretato alla stessa stregua. Un monaco si recò da Hsuan-sha e gli disse: «Mi è stato riferito che voi dite che l’intero universo è un unico cristallo trasparente; come devo intendere tali parole?». Il maestro rispose: «L’intero universo è un unico cristallo trasparente – e che bisogno c’è di capire?». L’indomani il maestro chiese lui stesso al monaco: «L’intero universo è un unico cristallo trasparente; come intendi queste parole?». Il monaco rispose: «L’intero universo è un unico cristallo trasparente – e che bisogno c’è di capire?». «Vedo», disse il maestro, «che tu vivi nella caverna dei demoni». Questo sembra un altro caso del metodo delle «ripetizioni», però vi è già qualcosa di diverso, vi è, per così dire, un maggiore elemento intellettuale.
In ogni caso, lo Zen non fa mai appello alla nostra facoltà raziocinante, ma punta direttamente sul soggetto. In una certa occasione, Hsuan-sha offriva il tè ad un ufficiale di nome Wei, che gli chiese: «Che si vuol significare quando si dice che, pur avendolo ogni giorno, noi non lo conosciamo?». Invece di rispondere, Hsuan-sha prese un pezzo di dolce e glielo offrì. L’ufficiale mangiò il dolce, poi ripeté la domanda, al che il maestro disse: «non lo conosciamo perfino quando l’usiamo ogni giorno». Un’altra volta venne da lui un monaco che voleva sapere come si entra nel sentiero della verità. Hsuan-sha chiese: «Odi il mormorio del ruscello?». «Sì, lo odo», disse il monaco. «Ecco un modo per entrare» fu l’insegnamento del maestro. Il metodo di Hsuan-sha consisteva dunque nel far si che il ricercatore della verità realizzasse direttamente in sé ciò che essa è, invece di trasmettergli una conoscenza di seconda mano. «Un Dio compreso non è più Dio», disse Terstegen.
[…] Quando si usano delle parole ed esse sono comprensibili, possiamo illuderci che esse ci forniscano la chiave di ciò che si vuole sapere; ma quando ci troviamo dinanzi ad una semplice, inarticolata esclamazione, ben poco vi è da fare, a meno che non si possegga già quel genere di sapere, di cui mi sono sforzato di dare al lettore l’idea.
[…] Questo ci ricorda un antico mistico, il quale definì Dio come un sospiro ineffabile.”
(Da: D. T. Suzuki, Saggi sul Buddismo Zen)
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– Daisetsu Teitarō Suzuki – Wikipedia