Perché il perseguimento di un’adeguata e pertinente consapevolezza – della congerie di attività che ciascuno sperimenta in prima persona, dei pensieri che attraversano il cielo limpido della propria mente, … – è il fondamento di ogni pratica spirituale? Il vero scopo di siffatto esercizio è quello di condurci, via via, alla consapevolezza di noi stessi. Il vero fine è di convergere sul soggetto per scoprire chi sia davvero colui che pensa, che legge, che osserva, che riflette … per intuire chi si cela davvero dietro l’ambaradan esistenziale. La coscienza di sé è la porta del cielo, l’elemento invariante che ci consentirà d’intuire la chiara luce madre all’origine.
«Il punto vitale dello stato naturale
è la consapevolezza di sé.
Duplice essa è:
relativa e assoluta.
Quella relativa è la coscienza
ordinaria di se stessi,
la stella polare che consiste
nella nuda consapevolezza
di essere o esistere.
Lo stato naturale
della consapevolezza di sé relativa
viene chiamato “chiara luce figlia”.
Lo stato naturale
della consapevolezza di sé assoluta
viene chiamato “chiara luce madre”.
Il cuore della meditazione ati, in cui non c’è nulla da meditare, è la consapevolezza di sé. Ma cosa vuol dire essere consapevoli e, per di più, essere consapevoli di sé?
Tu che ascolti o leggi, non sei forse consapevole delle parole che stai ascoltando o leggendo? Questa è la consapevolezza dell’oggetto. Invece la consapevolezza che il testo invita a riconoscere è quella del soggetto.
Tu che ascolti o leggi, mentre sei consapevole di queste parole, non hai forse la capacità di essere anche consapevole di te che stai ascoltandole o leggendole?
È come se tu ti rendessi conto di essere o esistere qui e ora.
Potresti anche smettere di ascoltare o leggere, per udire soltanto la tua voce interiore che, senza usare parole, canta naturalmente dentro di te: “io sono, io esisto”.
Hai notato che tu senti di essere o esistere non perché pensi, percepisci o fai qualcosa? Tu senti di essere o esistere per il semplice fatto che sei ovvero esisti, a prescindere dal rivestimento di ciò che pensi, percepisci o fai.
Questa naturale, nuda consapevolezza di essere se stessi o esistere nel momento presente viene chiamata “coscienza ordinaria”, essendo comune, consueta, abituale; così ordinaria che non le si dà alcuna importanza, al punto che quasi non la si nota.
Ma proprio questa basilare coscienza ordinaria è il cuore del nostro essere. Perciò, se vogliamo ritornare allo stato naturale, dobbiamo permetterci di abbandonarci senza sforzo a questa semplice, elementare, fondamentale, genuina consapevolezza di noi stessi.
La luce naturale della consapevolezza di sé attira al centro, alla propria dimora originaria, là dove qualunque onda appaia, sorge e si dissolve spontaneamente.
Ma, attenzione! Lo stato naturale della coscienza ordinaria non è assoluto, bensì relativo, come la luminosità “figlia” riflessa nello specchio. Eppure, senza lo specchio della coscienza ordinaria, come potremmo intuire l’esistenza della consapevolezza assoluta, della “chiara luce madre”, del grande Sé che è il nostro vero volto primordiale?
Puoi forse contemplare il tuo volto direttamente?
È evidente che puoi soltanto essere il tuo volto.
Indirettamente, però, puoi vederlo riflesso nello specchio.
La visione riflessa del Sé è l’unica accessibile a noi, umani ordinari, finché viviamo con il senso dell’io, con la percezione della nostra identità personale, con la sensazione di esistere come entità individuali.
Nondimeno, al di là delle molteplici immagini cangianti e ingannevoli che appaiono nello specchio personale, quella “chiara luce figlia” della visione indiretta rimane comunque centrale, costante e immutata. Essa è la porta del cielo, la finestra dell’assoluto, la limpida Stella Polare del proprio essere, sicura guida del marinaio nei mari calmi e burrascosi, del carovaniere nei deserti silenti e tempestosi, e di qualunque errante nella notte del divenire.»
[Consapevolezza (Rigpa) – di Padmasambhava (Autore), G. Baroetto (a cura di)]
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