Le considerazioni che Shunryu Suzuki-Roshi formula in merito alla pratica di zazen sono, pur nella loro estrema semplicità, ma forse proprio per questo, come sempre illuminanti. Ci sono persone che tentano ancora di fermare la loro attività di pensiero o di liberarsi da ogni risvolto emozionale… e invece, come ci si dovrebbe regolare?
«Nella pratica di zazen noi fermiamo l’attività di pensiero e siamo liberi dall’attività emozionale. Non diciamo che non ci sia più attività emozionale ma che ne siamo liberi. Non diciamo che non ci sia più attività di pensiero, ma ciò che facciamo nella vita non è limitato dalla mente pensante. In poche parole si può dire che ci fidiamo totalmente di noi stessi senza pensare, senza sentire, senza discriminare fra buono e cattivo, giusto e sbagliato. Sediamo in meditazione perché rispettiamo noi stessi, perché portiamo la fiducia nella nostra vita. Ecco la nostra pratica.
La nostra vita è del tutto in pace, quando si basa sul rispetto e sulla completa fiducia. Dovrebbe essere così anche la relazione che intratteniamo con la natura: dovremmo rispettare ogni cosa, e possiamo praticare il rispetto per le cose nel modo che abbiamo di entrare in relazione con esse.
Questa mattina mentre ci inchinavamo nello zendo abbiamo sentito un gran fracasso: al piano di sopra, in sala da pranzo, qualcuno spostava le sedie spingendole sul pavimento, senza sollevarle. Non è questo il modo di trattare le sedie, non solo perché potrebbe disturbare la gente che si sta inchinando giù nello zendo ma anche perché, fondamentalmente, quello non è un modo rispettoso di trattare le cose.
A spingere le sedie qua e là sul pavimento si risparmia fatica, ma dà un senso di pigrizia. Questo genere di pigrizia, naturalmente, fa parte della nostra cultura ed è quello che finisce per farci litigare gli uni con gli altri. Invece di rispettare le cose vogliamo usarle per noi stessi, e se usarle ci è difficile le vogliamo conquistare. Questo tipo di idea non si accorda con lo spirito della pratica.
Allo stesso modo il mio insegnante Kishizawa Ian non ci permetteva di mettere via gli amado se non uno alla volta. Conoscete gli amado? Sono le ante di legno che si montano all’esterno dei pannelli, gli shoji, per proteggerli durante i temporali. All’estremità dell’edificio c’è un ripostiglio, una specie di cassa, dove si ripongono gli amado. Dato che le ante sono scorrevoli, un monaco ne può spingere cinque o sei per volta e un altro monaco lo può aspettare in fondo per poi riporre gli amado nel ripostiglio. Al mio maestro, però, non andava bene: ci diceva di muoverli uno alla volta. E così facevamo scorrere un’anta alla volta e poi la mettevamo nel ripostiglio, una per una.
Se prendiamo le sedie una per volta, con cura, senza fare troppo rumore, avremo la sensazione di praticare anche in sala da pranzo. Faremo meno rumore, naturalmente, ma sarà piuttosto diversa anche la sensazione: praticando così noi stessi siamo dei Buddha e ci portiamo rispetto. Prenderci cura delle sedie significa che la nostra pratica va al di là dello zendo.»
[ Da: Shunryu Suzuki-Roshi, “Lettere dalla vacuità. Lo zen e l’arte di vivere“ ]
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