La nostra cara, splendida e per nulla umile rana zen non ama i preamboli. Chiunque ne abbia letto, seppur occasionalmente, anche uno solo dei suoi modesti racconti sa che dopo un primo breve approccio va quasi subito dritta al sodo. Il fatto è che lei non riesce a immaginare la vita, prefigurarsene i risvolti, sa solo immergersi, saltare e poi reagire.
Sicché anche stavolta s’avvicinò al suo maestro cincischiando e facendo finta di nulla. Quasi come fosse capitata lì – nella vetusta dimora adiacente al sacro tempio naturale che era quella splendida foresta di pini svettanti – per puro caso. D’altro canto il venerabile, che oramai la conosceva bene, non batteva ciglio e sorrideva. Si, sorrideva, quasi come se l’infinito sorgesse, poi declinasse, ma prima di sparire lasciasse fiori. Fiori su fiori, gli stessi che adornavano le aiuole del finto viale, della finta dimora, del finto maestro.
Già, perché in realtà il suo maestro, la rana, se l’era solo immaginato. Oppure quel vecchio boscaiolo che di tanto in tanto le offriva un po’ di silenzio invitandola a sedere sui vecchi ceppi ricoperti di muschio e candore, era proprio il suo vero maestro. Sta di fatto che più di tanto non si era mai sprecato, a volte non la degnava nemmeno, sedeva e basta.
Bene, si disse la rana, è sopraggiunto il momento in cui devo risintonizzarmi con lo spirito … di ricerca del Buddha. Proprio così, parve risponderle il suo presunto insegnante mentre si alzava e si allontanava via via, lento come il tramonto, ma con la ripromessa di non fermarsi mai. E mentre le luci delle stelle si riaccendevano a grappoli ne colse, rapida, l’assoluto non-senso.