“Maestro, quali sono le regole del viaggio spirituale?”, chiese piuttosto affranta la rana zen all’inestimabile monaco che seguiva dappresso con un’ostinazione a tratti commovente.
Bene, ci sono due elementi da chiarire subito. Il primo. La rana zen non era affranta dalle vicissitudini della vita, o dalla cosiddetta malasorte. Lei, la pivella, era angustiata per il fatto di non riuscire a realizzare un’utopia, sé stessa. Sia i libri sull’argomento, che le ideologie religiose correnti – o, se preferite, vigenti – l’avevano condizionata a tal punto da non saper più distinguere – tanto per citare un esempio – le sue credenze dai fatti reali.
Il secondo. Il monaco non si era mai definito un maestro. Non aveva mai insegnato, nessuna indicazione, proprio nulla di nulla. Al massimo, quando costretto, si era limitato a formulare certe deduzioni così scontate da sembrare persino irrilevanti. E infatti, anche stavolta, l’anziano monaco, con un piede a mezz’aria e un sorrisetto che sembrava discendesse dall’alto, le rispose:
“Le regole? Ma se non c’è nemmeno il viaggio, come pretendi di stabilire delle regole?”.
Già, l’eterno presente, rifletté la rana. E osservò, quasi stupita, il giardino. I vialetti che si dipartivano dal Tempio del silenzio – l’ameno rifugio per chiunque avesse bisogno di una breve pausa – dopo un certo percorso, relativamente tortuoso, in ogni caso affatto scontato, e dopo essersi intersecati più volte per dissimulare il loro vero tragitto, ritornavano sempre al Tempio stesso, all’origine.
“Figliola”, concluse il monaco quasi divertito, “le regole del viaggio ce le metti tu, in realtà non ci sono. Finché con il tempo, persino ciò che ti sembrava una domanda, diverrà, essa medesima, la sua inequivocabile, scontata risposta.”