Una breve premessa. Questo racconto lo scrissi intorno al 2007 circa, quando i flussi migratori erano ancora marginali e costituiti da profughi che fuggivano da situazioni di estremo pericolo e non come oggi, 2017, che in massima parte sono composti da soggetti alla ricerca di condizioni economiche più favorevoli. Purtroppo la guerra è divenuta una scusa per non organizzarsi e risolvere i problemi in casa propria. Ve l’immaginate cosa sarebbe accaduto se i partigiani della seconda guerra mondiale, invece di lottare, fossero emigrati in massa altrove? Comunque, anche se il racconto potrebbe sembrare relativamente inopportuno ha pur sempre una sua valenza storica che travalica sia i tempi che i luoghi. Forse è l’esempio più palese di quanto sia semplice travisare i sentimenti e crederli realtà. Purtroppo la manipolazione emotiva delle coscienze è oramai all’ordine del giorno. Dopo il breve racconto ho aggiunto, a mo’ di epilogo, un ulteriore commento.
Clandestino
Un racconto a due voci, quella del protagonista, la cui narrazione è tratteggiata in guisa di una testimonianza; e quella dell’autore che ne integra la cronaca.
«Parlo con i delfini. Anche se non sono capace nemmeno di leggere, traduco il linguaggio dei gabbiani e interpreto gli sbuffi del mare, il tramestio delle onde, il fruscio del vento che spira dal nulla. Tra i riccioli, scompigliati, sulla pelle riarsa. Il sole, cui chiedevo clemenza, il rollio. Perché ti meravigli, pensavi che stessi ancora dormendo?»
Dopo “rom” fu la volta di “senza-terra”, clandestino per eccellenza. Un po’ bianco, un po’ nero, mezzo etiope, mezzo non sapeva nemmeno lui che cosa, tentò, come qualche migliaio dei suoi disgraziati confratelli della disperazione, la traversata della vita. Ma quando si rese conto che il paese cui intendeva chiedere asilo o rifugio se non misericordia era retto da un manipolo di spietati egoisti, era già troppo tardi.
«Ieri ho visto la terra. La zattera, giacché di una barchetta si trattava e non di un vascello da diporto, beccheggiava per la risacca. La spiaggia si trovava, oramai a una spanna. Se tendevo il braccio e allungavo le dita mi sembrava di sfiorare ancora il volto di mia madre … il giorno in cui l’avevo lasciata.»
Ricacciato indietro, pressappoco come pericoloso invasore, subì un molteplice oltraggio. Fu crocifisso moralmente più volte: in quanto povero; perché bisognoso d’aiuto; per il fatto d’amare i suoi figli. Quando s’avvide dell’immane durezza con cui veniva rigettato tra le implacabili fauci dell’inedia, della fame e della malattia, pianse. Vi ripensò e ripianse. Invaso dalla paura, affranto dallo sconcerto, scrutò i volti sofferenti dei suoi incolpevoli carcerieri. Ciò che vide fu altrettanto drammatico: dolore, disgusto, rassegnazione infinita.
«E pensare ch’ero disposto a integrarmi. Adottare una nuova lingua, nuovi costumi. Rifiutare il mio clan, anteporgli nuovi amici ed esser grato per sempre ai miei salvatori.»
Dopo che ne ascoltai il racconto non mi vergognai più di nulla.
«La brezza mi ha ravvivato le pupille, tra un po’ raggiungerò il mio paese … Mentre pensavo di farla finita un fendente nebulizzato mi ha sferzato le gote. Ero gonfio dal pianto, senza più lacrime, nemmeno per sperare, ma ho provato subito sollievo. Grazie mare, grazie per avermi accolto, grazie per avermi cullato, grazie infine per avermi svegliato.»
Commento
Con il senno di poi, credo che il nodo irrisolto del tema trattato nel racconto sia la questione dell’integrazione. Ci si può davvero integrare, pur rimanendo islamici o Dio solo sa cos’altro? I nuovi venuti non sanno che i “cristiani autoctoni” non sono affatto ligi ai dettami delle loro “confessioni”. In Occidente le pretese di matrice irrazionale delle religioni più diffuse sono state già ridimensionate. Scienza, consapevolezza e buon senso hanno avuto la meglio. Integrarsi significa soprattutto adeguarsi alla cultura locale e rinunciare, ad esempio, agli orpelli di una fede che impone, tra l’altro, veli e costrizioni varie. In Occidente prevalgono – lo ribadisco – scienza e consapevolezza!
Ora mi rivolgo a quelli tra gli amministratori nostrani che sembra abbiano perso il lume della prudenza, dell’equilibrio, della ragionevolezza e del discernimento: attenzione, perché non si può accogliere e quindi aiutare chiunque se non si risolvono prima le situazioni di relativo disagio dei connazionali in difficoltà. Non si possono ignorare coloro che con immani sacrifici protratti tra le capricciose e volubili pieghe del tempo hanno contribuito a vario titolo a edificare l’attuale – pur imperfetta – società. Nessuna propaganda riuscirebbe più ad arginare le imprevedibili conseguenze di siffatta assurda sventatezza …