Raccontare la storia della rana zen, delle sue vicissitudini, delle sue repentine realizzazioni, dei suoi sconvolgenti e irrazionali attaccamenti, è uno degli argomenti più difficili – lo ammetto – che mi sia mai ripromesso. Questa creatura non può essere classificata tra le categorie più familiari, come sappiamo non è del tutto autoctona. Eppure, che ci sarebbe di strano se un tal splendore decidesse di adottare le consuetudini locali? Beh, sono rimasto volutamente nel vago perché temo il momento in cui dovrò dirvi in quale ulteriore tresca interiore, in quale atipica traiettoria di ricerca si fosse impelagata l’imprevedibile rana.
Quell’essere, così come lo rammento nei miei ultimi scampoli di permanenza sul pianeta terra, era quanto di meglio e nel contempo anomalo si possa immaginare. I maestri del “Tempio della meditazione” – che l’avevano accolta come una benedizione – avevano intuito subito la sua straordinaria vacuità. Una “povertà di spirito” conseguita fin nei recessi più intimi della sua provvidenziale coscienza. Tutto ciò, agli occhi di quegli autorevoli discenti della non-mente, appariva così esotico che, di fatto, si erano innamorati – pressoché all’unisono – di quella loro umilissima inserviente. Sicché, senza che nessuno, tranne il maestro di meditazione più anziano a capo del monastero, se ne rendesse conto, si erano adagiati a quell’evanescente ed eterea figura ammirandola, direi contemplandola, di tutto punto. La rana, ovviamente, ricambiava, ma si sentiva un tantino imbarazzata.
L’ultimo tassello della “Casa del lago senza-tempo” trafitta dai sorrisi di cotanti super-sinceri e purissimi monaci? No, era troppo! Fu proprio allora che la nostra cara amica di sempre, la rana zen, cominciò ad amare. Amò dapprima le rose bianche sul viale d’ingresso. Amò quei cimeli di culto che i suddetti monaci, pur avversi ai riti formali, custodivano con segretissima cura. Amò gli animali dei dintorni, sia quelli in pianta stabile, stanziali, come i tre gatti, probabilmente convinti, visti i deliziosi bocconcini a loro riservati, di essere una sorta di extra-categoria semi-illuminata; quanto quelli migratori come le anatre che, di certo, si sentivano protette dalle calme acque che circondavano, letteralmente, quegli ambiti di culto. Amò pure, ma non ultimo, le rane più meditative mai viste oppure udite: ciò che in molti ritengono uno sgangherato e confuso o casuale gracidio era considerato, in quel luogo, uno splendido mantra le cui note attraversavano indenni i residui barlumi d’anima individuale dei residenti per sfiorarne il mitico centro … che però non c’era.
Già, la rana Zen amava pure l’assoluta mancanza di filosofia di quei monaci e non perdeva mai l’occasione per meditare in sintonia con loro. Un bel dì se ne accorse proprio un discepolo novello dalla mente ancora indenne dagli inevitabili luoghi comuni che prima o poi si affermano dovunque. Ebbene, si avvide, che quando la rana era presente la sua freschezza era anche la loro, la sua vita, il suo sorriso, era anche il loro. Finché, nel prosieguo, qualcun’altro non giunse persino a chiedersi: al di là dell’aspetto formale, chi è che ci guida davvero? Detto fatto, si rivolsero al Venerabile che concluse: “Sciocchi, l’avvenenza è come una nuvola, ciò che ispira la rana e che guida davvero tutti – voi sì che dovreste vederlo più chiaro – ciò che ci guida è il non-amore”. Finalmente una traccia, sorrise l’inconsueta e singolare aiutante, un po’ discepola e quant’altro vogliate o vi piaccia: “Cos’è che puoi amare se non il non-amore?”.