Meglio dirlo subito, altrimenti potrei esser travisato, questa poesia è una metafora. In genere sono riluttante a fornire delucidazioni in merito ai versi, ma stavolta preferisco spiegarmi in anticipo. Entrare in meditazione equivale ad intraprendere un viaggio per esplorare i reami più reconditi della propria coscienza. La difficoltà non è il viaggio in sé, che poi non è altro se non il susseguirsi naturale degli eventi della vita, ma accedere, principiare, familiarizzare con una sorta di reame da cui, nei primi frangenti, traspare soprattutto silenzio. Dunque per accostarsi all’interiorità più pura bisogna accantonare – temporaneamente – la logica e cavalcare l’onda della curiosità, dell’impulso amorevole. D’altra parte, per facilitare il lettore nella meditazione, devo sbigottirlo, sorprenderlo, creargli dei dubbi. Questa poesia non è una metafora.
Tra le pieghe degli istanti
Ho un evaso per amico.
Egli, un giorno, non tanto lontano
mi lasciò, a contar le stelle
come fosser pecorelle.
Egli astuto, senza tradirsi
mi lasciò come per gioco
tra le grate delle celle,
lo rividi e mi schernì.
Sono abile, lo sai,
entro ed esco a piacimento,
tu lo puoi, ma ti vergogni,
temi il regno, temi il sogno.
Il mio amico è un vero indegno,
passa il tempo a curiosar,
passa il segno, va nel tempio
tra le pieghe degli istanti,
è un ingegno, non c’è dubbio,
onde crespe, checché spicce
sono il massimo
della sua puerile
abilità.