L’articolo che segue esemplifica molto bene il percorso individuale di un meditante alla riscoperta della propria identità essenziale, alle prese – in senso metaforico – con la sofferenza dell’io che si rifiuta – accade un po’ a tutti – di accettare ciò che è, quindi riconoscere la propria imprescindibile caducità, superare ogni edonismo, ogni appiglio. In una notte tenebrosa, nell’antica città di Gerusalemme, il Buddha – non è un nome personale, ma un titolo – Gesù il Nazareno si rivolse ad uno dei più famosi intellettuali del suo tempo e gli disse: “In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo, non può vedere il regno di Dio” (Giovanni 3:3). Parafrasando, se non rinunceremo all’idea che ci siamo fatti del nostro passato, nonché alle proiezioni immaginifiche riguardanti il futuro, se non ricuseremo l’ego, non entreremo nel regno della nostra interiorità.
Quando la mente si calma
Quando la consapevolezza della propria natura essenziale è ancora lontana predomina, incontrastato, l’io, ciò a cui Albert Einstein si riferiva parlando di “un’illusione ottica della coscienza”. In virtù del proprio percorso di meditazione giungiamo, prima o poi, a riconoscerne la caducità, l’inesorabile impermanenza. Comprendiamo come l’ego, ovverosia l’errata percezione di chi siamo, sia solo un illusorio senso d’identità.
Quando i pensieri rallentano e la mente si calma subentra la chiarezza, ma pure un certo periodo di sofferenza. Le antiche certezze vacillano. Smettiamo d’identificarci con nome e forma, nonché con i ruoli finora impersonati, ma l’autentica armoniosità del creato non è ancora trapelata. Sopraggiunge la sofferenza, la paura di perdersi. Ma ciò che lasceremo è solo l’identificazione con una mera sovrastruttura temporale che per una grave dimenticanza assurge da un ruolo giustamente funzionale a quello di fattore preponderante. La “buona novella” consiste quindi nel fatto che riconoscendo l’illusione come tale essa si dissolve.
Esperire nuove possibilità
Ti sei mai soffermato a riflettere sull’insistenza del Buddha circa l’impermanenza? Tutto ciò che ha una causa è correlato, è il risultato di una moltitudine di circostanze, eventi, fenomeni che convergono in continuazione stabilendo dei nessi, ma in evoluzione continua, senza riuscire a fissare o delineare nulla di permanente o definitivo. Nessun sé, nessuna anima delle cose, tranne ovviamente che il nucleo di coscienza già capaci di esprimere. Un flusso perenne che non ha bisogno d’impulsi in quanto è esso medesimo energia propulsiva. Basterà consentirgli di esistere, non impedirlo.
Forse, se tu riflettessi molto seriamente sull’impermanenza, riusciresti ad accettare che nel modo non v’è nulla di definitivo. Che l’acqua degli stagni, quando non si verifica un ricambio sufficiente, un flusso e deflusso continui e consistenti, diverrà certamente maleodorante, malsana.
Quindi è più che normale e salutare cambiare, esperire nuove possibilità. I veri infermi sono coloro che rimangono fermi a pretendere l’eternità in un bicchiere, in una sola goccia d’acqua.
Le migliori gocce d’acqua sono già a nostra disposizione. Pronte per essere vissute con tutto se stessi e così pienamente che non rimarrà mai alcun angolo inesplorato, nessun rimpianto.
Meditazione
Per riconoscere la tua goccia d’acqua è inutile continuare a supporre, presupporre, sperare. Semmai inebriati di sobrietà, di rettitudine. Se lo ritieni utile pratica questa “meditazione”:
Ascolta il suono della luce, raffigurati l’immagine di un suono, dai forma ai tuoi sogni migliori, contemplali così pienamente da non perderne il benché minimo frammento e potervi rinunciare in un attimo, un istante. Ancora altri sogni li sostituiranno, ma tant’è, è lila, l’incommensurabile gioco della vita, il modo con cui Dio stesso si diverte. Il bello sta proprio nel fatto che non v’è mai nulla di stabile e definitivo. La meraviglia consiste esattamente nella sua caducità, nell’accettazione del rinnovamento, del suo dinamismo.