Il malessere cui mi riferisco è quello esistenziale, una sorta di carenza di fondo che ti coinvolge in una melliflua e persistente inquietudine. Di primo acchito sembrerebbe ansia. Ma perché definirla con gli algoritmi correnti? Non appena le affibbi un nome la circoscrivi a una terapia, a un farmaco. Ora, non nego che oggigiorno – in certi casi – sia indispensabile ricorrervi, così come consultare un medico sia per lo meno doveroso, ma non bisogna, per questo, sentirsi menomati o inefficienti o malati, tutt’altro, in realtà è previdenza.
Tuttavia l’ambito di cui ci stiamo occupando è spirituale, è un distillato della mente e da questa prospettiva quel malessere è una carenza, una rimarchevole mancanza di consapevolezza. Come porvi rimedio? Ossia, come ricentrarsi, come superare la nausea di sentirsi in balia dei vicendevoli umori quando poi sai che in effetti si tratta soprattutto – semplificando – della temporanea identificazione con banali quanto effimere e periferiche proiezioni (stati d’animo, formazioni mentali)? In altri termini, il mondo non è né bello né brutto, è neutro. Sei tu che lo dipingi di continuo.
L’inconsapevolezza nella nostra natura essenziale serpeggia un po’ dovunque. Sia tra i personaggi più noti della nostra élite culturale che nella lunga teoria di semi-saggi che si spacciano e si abbigliano e camuffano da religiosi più o meno in carriera. È triste vedere come tante pur splendide persone si siano adagiate su quella pletora di luoghi comuni che hanno fatto dell’ovvio il crocevia della resa. Oddio, si fosse trattata della resa a se stessi saremo almeno a buon punto. Ma tant’è …
Quanto siamo ad ammettere l’estrema caducità di questa pur straordinaria esistenza? E tra questi, quanti coloro che si sono affacciati all’incontrario per coglierne l’insieme nella quiete di una calma e silente meditazione, come nel caos di un tran tran più complessivo?
Immagina che l’inspiro saturi di energia la tua mente e che l’espiro la dreni delle scorie dei desideri irrealizzati.
Dopodiché, chiudi gli occhi e dimora per un po’ nel non-luogo della tua incontrovertibile e imponderabile peculiare natura, laddove malessere e gioia si fondono.