Rinunciare tout court alle proprie opinioni, così come in un primo momento si potrebbe frettolosamente intendere questo interessante suggerimento buddhista, non è proprio corretto. Ciò a cui, ben più realisticamente, si dovrebbe rinunciare, sono i propri pregiudizi. Ogni preconcetto o prevenzione, supportato spesso da credenze errate, fisime, se non fanatismo precludono ogni contatto immediato con la realtà, inibiscono del tutto la consapevolezza, per relegarci in un limbo di relativa quanto perniciosa incoscienza. Per ciò che concerne la meditazione buddhista in senso stretto – come riportato nel seguente testo del monaco Bhikkhu Analayo, professore ordinario di studi buddhisti presso il Numata Center for Buddhist Studies dell’Università di Amburgo – la rinuncia è l’ultimo dei sedici passi della consapevolezza del respiro (Anapanasati).
«Mentre il termine ‘lasciar andare’ ricorre più frequentemente nelle esortazioni a distaccarsi dai beni materiali con la pratica della generosità, la rinuncia compare spesso in relazione alla necessità di rinunciare alle opinioni. Così, è consigliabile rinunciare alle varie opinioni circa il passato e il futuro; e in realtà tutto il Sallekha-sutta si impernia sul tema della rinuncia a determinate opinioni. Lo stesso tema è centrale nell’analisi delle opinioni proposta dal Dīghanakha-sutta. L’efficacia di questa prescrizione risulta evidente nella sezione conclusiva del discorso, in cui si dice che Sāriputta raggiunse la completa liberazione dopo aver capito che il senso dell’istruzione del Buddha era arrivare alla rinuncia grazie a una diretta intuizione della realtà.
Un gruppo dove prevale la retta parola è un gruppo i cui membri sono capaci di rinunciare alle proprie opinioni, invece di difenderle dogmaticamente. Per chi si aggrappa dogmaticamente alle proprie opinioni, questa è una forma di rinuncia particolarmente ardua. L’importanza del saper rinunciare alle opinioni trova eco anche in diverse norme del Vinaya relative a monaci o monache le cui opinioni sono fuorvianti o tali da provocare uno scisma.
Nel contesto della meditazione in senso stretto, la rinuncia compare come ultimo dei sedici passi della consapevolezza del respiro. Qui la rinuncia è preceduta dalla contemplazione dell’impermanenza, della dissolvenza e della cessazione. Un’analoga serie di passi nello sviluppo della visione profonda, applicato alle sensazioni in generale, porta a non aderire a nulla al mondo, e quindi alla liberazione.
In rapporto alle sensazioni piacevoli, la rinuncia porta ad abbandonare la tendenza latente alla passione; in rapporto alle sensazioni spiacevoli, la tendenza latente all’irritazione; e in rapporto a quelle neutre, la tendenza latente all’ignoranza. Dunque, di qualunque tipo di sensazione si tratti, il compito è osservare il loro carattere impermanente e infine rinunciare al coinvolgimento e all’attaccamento nei loro confronti.»
Da: Bhikkhu Anālayo, “Escursioni nel buddhismo antico. Dall’attaccamento al vuoto”
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