Il concetto di sangha, tradizionalmente associato alle comunità monastiche buddhiste, sta vivendo un processo di riformulazione significativo nell’era contemporanea. Mentre in passato il termine indicava spesso strutture gerarchiche basate su ruoli e posizioni sociali, i testi antichi ci ricordano che Gotama stesso concepì la sua assemblea come una società repubblicana, inclusiva e guidata dal principio del dharma, piuttosto che da autorità individuali. Oggi, in un contesto laico e multiculturale, emerge la necessità di ripensare il significato di sangha per renderlo accessibile a chiunque pratichi la meditazione e segua i principi spirituali del buddhismo, indipendentemente dal genere, dalla professione o dallo status sociale.
Un sangha laico rappresenta una comunità dinamica e collaborativa, dove l’autorità non risiede in figure istituzionali ma nella legge morale impersonale del dharma. Questo approccio incoraggia una relazione di pari a pari tra i membri, promuovendo un ambiente di sostegno reciproco e crescita spirituale. Contrariamente alle gerarchie consolidate, un sangha moderno si fonda sull’amicizia e sull’individuazione personale all’interno di un contesto condiviso di valori. È un progetto in evoluzione continua, che richiede impegno attivo da parte dei suoi membri per coltivare relazioni autentiche e pratiche comuni.
Questa riflessione invita a esplorare come integrare i principi ancestrali del buddhismo in forme di organizzazione più adatte al mondo odierno, senza cadere né nell’individualismo sterile né nelle rigidità delle istituzioni tradizionali. Il risultato è una sfida pratica: costruire comunità vive, resilienti e aperte, capaci di trasformare ideali in azioni concrete.
Il significato di Sangha
«Nel corso dei secoli il termine ‘comunità’ (sangha) è stato per lo più monopolizzato dalle istituzioni monastiche. Nell’India del quinto secolo a. C., al contrario, la parola sangha si riferiva alle società repubblicane (come per esempio quella dei Malla e la confederazione dei Vajji) che furono governate da assemblee anziché da monarchie (come per esempio il Magadha e il Kosala). Gotama non solo formò esplicitamente la sua comunità sul modello di una società repubblicana, ma ribadiva di continuo che l’assemblea dei suoi seguaci era quadruplice: comprendeva i bhikkhu e le bhikkhuni, e i laici di entrambi i sessi. Inoltre, questa comunità, invece di sottoporsi alla volontà di un mendicante anziano (come Mahakassapa), doveva autogovernarsi aderendo a un corpo impersonale di leggi (dharma). E, soprattutto, l’appartenenza alla nobile comunità (ariyasangha) era determinata non in base allo stato sociale ma all’entrata nella corrente: vale a dire, non dallo stato di asceta o capofamiglia, ma dall’aver fatto proprio l’ottuplice sentiero.
In un’epoca laica come la nostra, è difficile immaginare che il modello asiatico del monachesimo buddhista si radichi al di fuori delle comunità buddhiste o di piccoli gruppi di convertiti tradizionalisti. Immaginare un sangha laico inizia col porre una domanda fondamentale: chi detiene l’autorità? Se seguiamo i primi testi, apprendiamo che la fonte dell’autorità è il dharma. Quando ristabiliamo questo principio essenziale spesso dimenticato, monaci e capifamiglia, uomini e donne, sono considerati soggetti a una legge che sostituisce qualsiasi potere istituzionale si possa acquistare nel corso di una carriera nella gerarchia buddhista. Un sangha laico, quindi, permette di dare potere a coloro che prima erano deboli ed emarginati. Ciò non vuol dire, tuttavia, che i seguaci dovrebbero ora sostituire i mendicanti all’apice della gerarchia. Porre l’autorità nel dharma comporta abbandonare qualsiasi gerarchia e sostituirla con un modello (come quello dei quaccheri) che funziona con il consenso fra pari spirituali.
Un sangha laico è una comunità di individui autonomi che pensano in modo simile, uniti dall’amicizia, e che lavorano per sostenersi a vicenda nel proprio progresso. Tale comunità è una pratica continua; richiede impegno e azione. In quanto comunità vivente, dove tutti i membri si considerano lavori in corso, è un progetto incompiuto. È qui utile la distinzione di Martin Buber fra comunità e collettività. Mentre i membri di una collettività rinunciano alla loro autonomia per raggiungere uno scopo condiviso, quelli di una comunità creano reti di amicizia che sostengono e onorano il processo di individuazione di ogni membro entro un contesto di valori condivisi.
Tale concezione del sangha potrebbe essere solo un ennesimo ideale utopistico, che non ha alcun peso su ciò che gli esseri umani potrebbero realisticamente ottenere? Se adottiamo questo ideale, non rischiamo forse di respingere un modello di comunità che, nonostante le sue imperfezioni, si è dimostrato valido nel corso di molti secoli? L’ordine monastico buddhista, dopo tutto, è una delle istituzioni umane più longeve che il mondo abbia mai conosciuto. In che modo, allora, i buddhisti laici possono creare, sostenere e coltivare un sangha sulla base di principi comuni e orientati verso il dharma? Come possono trovare una via di mezzo fra le istituzioni religiose autocratiche e gerarchiche da una parte, e l’individualismo isolato e alienato dall’altra? Questa è la sfida.»
[ Da: Stephen Batchelor, “Dopo il buddhismo. Ripensare il dharma per un’epoca laica“ ]