Il paragone – pressoché continuo – con gli altri è uno degli atteggiamenti più deleteri a cui si possa, seppur inconsciamente, ricorrere. Invece di cercare – in primo luogo – noi stessi – la nostra vera e inalienabile origine esistenziale – tentiamo di puntellare la nostra identità ricorrendo al confronto con chiunque ci capiti a tiro. Tuttavia, raffrontandosi di continuo alla perenne ricerca di assurdi paralleli, improbabili similitudini e inverosimili affinità, la propria ansia cresce di continuo. Come regolarsi? Riportiamo, innanzitutto, la nostra attenzione al fulcro e la realtà della gioia compartecipe prevarrà, ben presto, su ogni altro aspetto. …
«Paragonare noi stessi agli altri è un’afflizione mentale molto potente; nella psicologia buddhista è chiamata ‘vanità’. Quando siamo irretiti dalla vanità, veniamo spinti fuori da noi stessi, nel tentativo di sapere chi siamo e conoscere la nostra identità ed esperienza mediante il paragone con gli altri: “Chi sono rispetto a lui? Sono abbastanza buono in confronto a quella persona?”. Sia che concludiamo di essere migliori o peggiori di un altro, sia che pensiamo di essere uguali, quando valutiamo noi stessi in confronto ad altri ci facciamo del male. Se cerchiamo costantemente di stabilire attraverso il paragone chi siamo, cosa è importante per noi, se siamo o no felici, questo ribollire della mente minaccia la nostra felicità.
Il confronto, o vanità, è un’inquietudine sorda e dolorosa, che non potrà mai condurci alla pace, poiché non c’è mai fine alle possibilità di paragone. Per esempio, potete star seduti in una stanza e notare che la persona seduta vicino a voi è molto affascinante e sembra anche distinta; la vostra prima conclusione è: “Bene, io non sono di bell’aspetto come lei”. Poi notate che la persona davanti a voi sembra sudicia e arruffata; inoltre sembra che lotti con le parole, quando cerca di esprimersi. Sicché pensate: “Oh, bene. Io sono migliore di costui. Sono più elegante e mi presento meglio”. Ma in quel momento avvertite un dubbio fastidioso: “E se avesse lavorato tutta la notte in un laboratorio informatico aprendo nuove vie alla ricerca, mentre io so a malapena usare la macchina da scrivere? Forse non sono brava come lui, dopo tutto”. Dopo che avete più o meno determinato la vostra posizione in riferimento a tutti coloro che vi circondano, arriva qualche persona nuova e ricomincia l’ansia del confronto. […]
Nel praticare la gioia compartecipe, più che guardare agli altri per definire noi stessi, cominciamo ammettendo che di fatto meritiamo di essere felici. Grazie a questa sicurezza diveniamo capaci di compiacerci della gioia degli altri invece di sentirci minacciati da essa. Più che farci perdere nella forza centrifuga del desiderio, che trascina la nostra attenzione al di fuori, verso ciò che pensiamo di non avere, la gioia compartecipe trasforma il nostro rapporto con il mondo in una relazione di apertura e donazione spontanea.»
[ Da: Sharon Salzberg, L’arte rivoluzionaria della gioia ]
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