“Riconosco che passo buona parte delle mie sedute a sognare a occhi aperti; ammetto anche che questo vagheggiare mi risulta, in generale, abbastanza gradevole. Ma […] non è meditazione. […] Viviamo ebbri di idee e ideali, confondendo vita e fantasia. […]
La meditazione ama la concretezza e respinge l’astrazione. Chi abbandona la chimera dei sogni, entra nella patria della realtà. […] Il sogno sfugge sempre: è evanescente, intangibile. La realtà invece non scappa, siamo noi a scappare da lei. Meditare significa tuffarsi di testa nella realtà e fare un bagno nell’essere. […]
Non manipolare, limitarsi ad essere quel che si vede, si sente e si tocca: su questo si fonda la felicità della meditazione […].
Camminare con l’attenzione desta, per esempio, o lavarsi i denti con attenzione: percepire il flusso dell’acqua, il suo rinfrescante contatto con le mani, il modo in cui chiudo il rubinetto, il tessuto dell’asciugamano… Ogni sensazione, per minima che sembri, è degna di essere esplorata. L’illuminazione […] si nasconde nei fatti più minuscoli […]. Vivere bene implica essere sempre a contatto con se stessi […].
Non ambisco a contemplare, bensì a essere contemplativo, che equivale a esistere senza aspirazioni. [.. .]
Più che aiutare a trovare quel che si cerca, lo sforzo tende a impacciarci. Non conviene resistere, bensì lasciarsi andare, arrendersi con dedizione. Non insistere nello sforzo, bensì vivere nell’abbandono. Sia l’arte sia la meditazione nascono sempre dalla resa, mai dallo sforzo. E lo stesso succede con l’amore. Lo sforzo mette in funzionamento la volontà e la ragione; la resa, invece, la libertà e l’intuizione. […] L’unica cosa necessaria per questa resa con dedizione è essere lì, a captare quel che appare, qualunque cosa sia. La meditazione è come un rigoroso addestramento all’abbandono e all’abnegazione.
Sicché non c’è nulla da inventare, basta ricevere […]; e poi, questo sì, darlo agli altri. I grandi maestri sono, senza eccezione, grandi recettori. […]
Lo zen educa al rispetto verso la realtà. E la realtà non verrebbe rispettata se, in ultima istanza, non fosse considerata misteriosa. La meditazione aiuta a comprendere che tutto è un mistero […]. Oggi penso che per chi medita non c’è distinzione tra sacro e profano. […]
Reagire al dolore con ostilità lo converte in sofferenza. […] Nessuno mette in dubbio che il dolore sia odioso, ma accettare il fastidio e abbandonarvisi senza resistenza è il metodo giusto per renderlo meno sgradevole. Ciò che ci fa soffrire sono le nostre resistenze alla realtà. […]
Per ottenere questa connessione con il dolore bisogna fare esattamente l’opposto di quel che ci hanno insegnato: non correre, ma fermarsi; non sforzarsi, ma abbandonarsi; non proporsi mete, ma stare semplicemente lì. […]
Il dolore è il nostro principale maestro. La lezione della realtà – che è l’unica degna di venire ascoltata – non si impara senza dolore. La meditazione non ha per me niente a che vedere con un ipotetico stato di imperturbabilità, come molti la intendono. Si tratta piuttosto di un lasciarsi lavorare dal dolore […]. La meditazione è quindi l’arte della resa. […] Se nel mondo ci viene insegnato a chiuderci al dolore, nella meditazione ci si insegna ad aprirsi a lui. La meditazione è una scuola di apertura alla realtà.
Per quel che ho appena scritto, non sembrerà strano che la meditazione in silenzio e quiete sia stata accusata di sofisticato masochismo. In effetti, si arriva a un punto in cui si desidera sedersi tutti i giorni con la propria porzione di dolore: frequentarlo, conoscerlo, addomesticarlo”.