Cosa c’è di più puro, rispettabile e sacro di una convivenza affettuosa? Il suo suggello, più che sufficiente ed eterno, è l’amore. Quello disinteressato, senza confini. Pensate forse che l’amore, per estrinsecarsi debba assumere necessariamente la convalida di un qualche contratto che ne delimiti e regoli ambiti e validità applicative? Obbligarlo, costringerlo, coartarlo, è un semplice controsenso. L’amore non può essere irreggimentato. Disciplinarlo equivale ad opprimerlo. A meno che, ovviamente, non si preferisca condurre o trascinare una vita ipocrita.
Naturalmente le convivenze, come qualunque rapporto sociale che si rispetti, hanno bisogno di una serie di regole. Da qui le cosiddette unioni civili. Dal punto di vista formale, una legittima necessità giuridica. In prospettiva spirituale una vera e propria testimonianza d’accuratezza, relazione, solidarietà, reciprocità. Come descriverne valenze e implicazioni interiori?
Usi e costumi si avvicendano. Il tempo ne rinnova inesorabilmente prassi e consuetudini. Volenti o nolenti, è solo una questione di epoche, le tradizioni si adattano alle mutevoli circostanze economiche, al progresso delle conoscenze scientifiche, alla maturità psicologica dei popoli. Ma cos’è che rimane davvero costante nei rapporti interpersonali di natura profondamente affettiva da poter essere ritenuto sicuramente invariabile al punto da poterlo connotare come spirituale?
La dedizione. Una cura ed attenzione così coinvolgente e totale da realizzare, seppur in piccolo e nei limiti della nostra caduca e transeunte natura fisica, un’unità quasi ancestrale. Un riflesso dell’insostenibile, una leggerezza dell’essere che superi le idiosincrasie personali per riuscire a condividere ben più che il proprio semplice pensiero, ben altro che l’eventuale e disgustoso opportunismo solidale: un’unità d’intenti e sensibilità che trascenda le modeste consuetudini del sopravvivere in comune per riscoprire il miracolo della creatività. Non più singolarità parcellizzate, frazionate, bensì un pluralismo mutuo, biunivoco.
Naturalmente stiamo parlando solo della “piccola unione”, la cui spiritualità dipende dall’intrinseca sacralità della vita medesima. D’altro canto le limitazioni dell’universo oggettivo non cessano mai di esistere se non nei momenti di condivisione assoluta. Un dono prima che un risultato. Per quanto l’essere Divino Supremo – che dimora nel cuore di ciascuno – tenti di celarsi agli occhi indiscreti e profani d’ogni schiatta gaudente, esso palpita e freme dinanzi il prodigo che dona se stesso senza attendersi nulla in cambio, neanche la gioia, nemmeno il silenzio.
L’uno che è senza secondo. Presiede al tempo, allo spazio e alle cause secondarie; rimane ignoto a chi ha l’intelletto oscurato dalle passioni e dai fattori esterni. Sicché mi crogiolo al chiarore di una luce senza sorgente e immagino di navigare in un oceano senza nome, le cui onde, pur tutte diverse, aspirino senza remore egocentriche a un mondo buono in cui predominino gli affetti sopra le differenze, il desiderio di condividere su quello d’imperare, i veri insegnamenti del Cristo, la comprensione di Krishna e la saggezza degli incalcolabili Buddha sulla degenerante perfidia dei bigottismi più beceri e dal richiamo vagamente nostalgico di un periodo storico ancora troppo vicino – fascismo, nazismo – da poter esser giammai, così facilmente dimenticato.
Articolo del 07-02-07.