Siamo certi che – ora come ora – il lavoro sia veramente – quindi non solo in teoria – un effettivo diritto? Non tergiversiamo. In uno Stato civile qualunque suo cittadino dovrebbe avere il minimo necessario per sopravvivere, ossia la possibilità di procacciarselo con un determinato – seppur provvisorio e modesto – impiego. In linea di massima, gli emolumenti che il suddetto Stato elargisce ai suoi dipendenti, con particolar riferimento ai suoi funzionari, nonché le spese della politica e così via – fino al quadro economico complessivo del suo bilancio –, dovrebbero esser commisurate a siffatta inderogabile esigenza. Comunque la si voglia chiamare, pur con le debite – o relativamente opinabili – differenze, indennità di disoccupazione, misura di sostegno compassionevole, reddito di cittadinanza, reddito di base universale, è solo una sottigliezza semantica. Come può un cittadino riconoscersi nello Stato e nelle sue leggi se il medesimo non ottempera il primo e più elementare principio per cui una governance possa definirsi civile? Ora una poesia…
Meditare sul lavoro
L’amore che dilaga
dovunque piova luce
ci coglie impreparati quando
così, quasi d’un lampo
che squarcia quelle tenebre
– rallegra l’amarezza? –
ti folgora in silenzio,
vedi la vita così … com’è davvero.
Eh sì, di lacrime e tristezza
ne avresti già ben donde,
ma l’energia che sorge dal nulla, dal dolore,
sprigiona un tale impulso
da spazzar via chiunque
t’imponga stenti e umili l’innata propensione
a esser uno tra i tanti, uno tra i molti,
ma sempre più che umano.
L’umore ti trasforma,
ti dà più forza e mediti …
su chi non condivide
la dignità, il lavoro.