Ogni uomo cerca la felicita’, ma la maggior parte di loro confonde il piacere con la felicita’. Dove e’ la differenza? La vera felicita’ e’ permanente, mentre il piacere non lo e’. (Sri Ramana Maharshi)
Discettare sulla felicità, oggi come sempre, sembrerebbe pleonastico, un esercizio di mera retorica; ma la felicità cui ci riferiamo non è quella che si prova o conquista o consegue al raggiungimento di un determinato traguardo. Semmai è il distillato di ogni insieme di emozioni, da quelle più negative a qualunque exploit positivo di gioia o letizia. E’ l’essenza – o l’assenza? – del pensiero. E’ amore, ma senza che sia rivolto a nessuno. E’ il frastuono del silenzio. E’ un attimo, ma senza tempo. E’ un’obiezione, ma senza che ci sia stata alcun tipo di critica. E’ il rifiuto di colui che assente comunque. E’ la fuga di chi rimane pur fermo.
Per rinvenire la felicità dovremmo smettere, innanzitutto, di cercarla. Ciò non significa che sia qui, già presente. O che un certo “nume” sia pronto e disposto, lì per lì, a dispensarla. Felicità è il respiro che t’inonda col suo effluvio, l’élan vital che rigenera, il suo slancio. Felicità è, dunque, distacco, senza che ci sia, in ogni caso, nessuno che debba, necessariamente, abbandonare alcunché, mollare la presa. Felicità è tutto ciò che permane nonostante l’avvicendarsi delle stagioni, dell’età, delle ere, dei mondi. Felicità è quel che si manifesta quando l’auto-osservazione meditativa diventa stabile. Un elisir che taluni chiamano Dio, ma che il mio maestro zen indicava come: poggiare i piedi per terra.