Quesiti che potrebbero essere posti da chiunque, qualunque sia il sostrato culturale o comunque la si pensi, quantunque ci si ritrovi d’accordo o meno, sebbene lo spazio che in apparenza ci separa sia incalcolabile …
Quesito
Un mio amico ha immaginato, che noi siamo frammenti di esseri, vissuti milioni di anni fa …. voi cosa ne pensate?
Risposta
Penso che siamo frammenti di vite vissute da sempre. Pensieri, idee, esperienze, conoscenze, ecc. Abbiamo ereditato una memoria biologica di cui ancora non ci rendiamo conto.
Ma chi pensa? Chi ha ereditato? Chi ha vissuto? Chi non si rende conto?
E’ proprio questo il punto. Teoricamente si potrebbero proporre tante spiegazioni. Magari uno risponde, come ho fatto prima io, un po’ per gentilezza e un altro po’ per presunzione o in tono saccente. Me ne scuso. In pratica bisognerebbe esperire. Il linguaggio ordinario è insufficiente. In passato si sopperì con il simbolismo. Un altro metodo è quello metaforico. Taluni maestri spirituali comunicarono con parabole da interpretare secondo la propria comprensione. Io prediligo la comunicazione poetica.
Quesito
Ho sempre invidiato i monaci – di qualsiasi “fede”, dai benedettini ai buddisti tibetani – per la bellezza rigorosa ed essenziale della loro vita. Ma, in effetti, ammiro e stimo chiunque sia capace di condurre un’esistenza il più possibile sfrondata dal superfluo, e in compenso concentrata, piena, intensa, nell’avvicendarsi di attimi vissuti nella più serena e radicata (auto)consapevolezza. Il mio dubbio è questo. L’attrazione per la vita monastica è indice di maturità spirituale, o piuttosto, al contrario, della volontà di deresponsabilizzarsi dal proprio ruolo “attivo” nel mondo? Dopotutto, monaci – e, anzi, monaci guerrieri – si può essere anche conducendo un’esistenza apparentemente “normale”. Ma, allora, ripeto. Scelta di vita monastica: scelta matura, o scelta deresponsabilizzante?
Risposta
Né l’una né l’altra, né opzione matura, né scelta deresponsabilizzante. Così come accade nella tradizione del Buddhismo Theravada, ma forse anche in altre, bisognerebbe prevedere per chiunque la possibilità di significativi periodi di ritiro spirituale da reiterare all’occorrenza o secondo le circostanze. D’altra parte, il vero “monachesimo” può essere solo interiore. Le parvenze sono solo melliflua ipocrisia. Quanti sono i veri mistici? Il tempio reale è quello interiore. Gli ambiti esterni servono solo a riconciliarci più agevolmente con noi stessi.
Quesito
Che profluvio di parole! E se anche noi, dubbiosi, ricercatori, dimenticassimo che sono solo finzioni, magari splendide, ma pur sempre mere rappresentazioni? Come rammentarlo senza perdersi, chi mai riuscirà ad accorgersi che si tratta, essenzialmente, di semplici giochi?
Risposta
Se ne accorge il testimone. Colui che riesce ad osservare i propri pensieri. Vedi, certe volte la terminologia è contorta. Si può discuterne all’infinito. Ciò che conta è il senso generale del discorso. Ad esempio tu mi potresti rispondere che in effetti noi siamo la mente. Ed io dovrei replicarti che per mente s’intende il processo del pensiero. E che quando il flusso del pensiero s’interrompe ciò che rimane, il mezzo fisico d’osservazione è quella pseudoentità definita non-mente. Ma così saresti soddisfatto? Credo che altrettanto importante sia esperire il testimone in modo da rendersi conto dal vivo di quanto stiamo dicendo.
Quesito
Sappiamo come nutrire il corpo, per mantenerci in forma, ma che tipo di nutrimento ha bisogno la nostra essenza da apportare ogni giorno, per la nostra crescita interiore?
Risposta
Il nutrimento quotidiano per l’essenza, indipendentemente dal concetto di crescita che ovviamente non è lo stesso di quello fisico, è l’attenzione. Essa, l’attenzione, va intesa come presenza di spirito, o rivolta inizialmente ad un qualche processo, ad esempio il flusso spontaneo del respiro. Nelle antiche scritture tantriche si dice che l’attenzione è il cibo dell’anima.
Quesito
Non avere paura del giudizio degli altri. Quello che senti tu e quello che pensi tu ha forse meno valore?
Risposta
E’ inutile ripetere a chicchessia di essere genuino, spontaneo e di non aver paura del giudizio degli altri se prima non si verifica una trasformazione interiore. Ho capito che il coraggio necessario per emergere si trova in se stessi, come negli altri, il nostro prossimo. Ciò perché io so oramai che gli altri sono me, ma loro, gli altri, non lo sanno ancora. E se insistessi troppo a rimuoverli dalle loro ricorrenti illusioni, dai loro beati ed effimeri sogni? Forse sarebbero capaci persino di contestarmi. Ciò non toglie che di tanto in tanto lo ripeta ancora, ma forse più per convincere me stesso che la cosa sia in sè possibile. In effetti dubito che qualcheduno possa davvero cambiare con un semplice discorso.
Quesito
Nei pochissimi testi che ho letto sul buddhismo tibetano si incorre spesso nel concetto di attaccamento come fonte che crea sofferenza e dolore.
Una cosa non mi è chiara. Nei confronti degli affetti familiari, degli amori, degli amici, come si colloca questo discorso?
Risposta
Vorrei farti notare una cosa molto semplice.
Se ami davvero non puoi essere attaccato a nulla. Se ami i familiari, gli amici, il mondo intero, desideri nel contempo la loro libertà, autodeterminazione, indipendenza emotiva. E naturalmente eviti il rischio di diventare possessivo, ecc., perché altrimenti li faresti soffrire.
Quindi persino la paura di perdere i tuoi cari indica che non li ami abbastanza. Così come, d’altra parte, non ami abbastanza te stesso per trovare nella tua interiorità la fonte stessa dell’amore. Una realtà che da sola può sopperire a tutte le nostre consuete e, talvolta oppressive e angoscianti, identificazioni.
Grazie per la cortese attenzione.