Nel cuore della meditazione e della pratica contemplativa, si nasconde una profonda verità che sfida le nostre convenzioni quotidiane: il mondo non può essere ridotto a semplici categorie di “esistente” o “non esistente”. Questa intuizione, radicata negli insegnamenti del Buddha, ci invita a osservare con attenzione il flusso costante della vita, dove ogni fenomeno – un pensiero, un respiro, un suono – emerge, si trasforma e svanisce senza confini netti. Attraverso la meditazione, impariamo a superare le limitazioni del linguaggio e del pensiero dualistico, abbracciando una visione più fluida e dinamica della realtà. Questo approccio non solo dissolve l’illusione di un “io” separato e fisso, ma ci guida verso una comprensione più autentica della natura impermanente e interconnessa di tutte le cose. Coltivare questa consapevolezza richiede impegno e disciplina, ma apre la porta a un modo di vivere più empatico, compassionevole e libero dai vincoli di regole morali rigide, permettendoci di rispondere alle sfide della vita con saggezza e creatività.
«Per Gotama [il Buddha], le persone si affidano alle formule dualistiche di ‘è’ e ‘non è’ per dare un senso al mondo interiore e a quello esterno. Credono che le cose esistano o non esistano. Eppure quando si presta particolare attenzione a fenomeni come un pensiero, l’inspirazione, un dolore al ginocchio o il cipresso nel cortile, nessuna di queste cose può essere definita in modo riduttivo come ‘esistente’ o ‘non esistente’. Poiché esse vanno e vengono. Si trasformano e cambiano. Scivolano via e svaniscono. Si confondono l’una con l’altra. È impossibile tracciare una linea netta che segni, per esempio, dove o quando abbia avuto inizio o fine l’inspirazione. Tali distinzioni sono convenzioni utili, ma del tutto incapaci di mostrare come funzioni realmente la natura. L’incanto di moha [uno dei 3 veleni, di solito tradotto come “ottusità”] ha luogo ogni volta che accettiamo inconsciamente la visione secondo cui parole come ‘io’ corrispondono a una cosa (me) che esiste in una sfera sua propria, indipendentemente dal linguaggio usato per denotarla.
Come parlanti abituali di un linguaggio, presupponiamo che le parole siano rappresentazioni accurate della realtà. La comprensione completa, tuttavia, non si arrende più alla praticità del pensiero oppositivo, ma è aperta all’immediatezza e al potenziale di ciò che accade momento per momento. Addestrarci a prestare un’attenzione profonda e incarnata al pulsare della vita dentro e attorno a noi mette in luce i limiti del linguaggio. Quando siamo testimoni del sorgere e dello svilupparsi di qualcosa la nozione ‘questo non è’ appare assurda. Similmente, la contemplazione del suo venir meno e sparire mina qualsiasi nozione di ‘questo è’.
Sostenere una ‘visione completa’ come questa è un compito impegnativo. Arrivare a vedere il mondo e se stessi in questo modo, in controtendenza rispetto a come siamo condizionati a pensare e a parlare, richiederebbe una grande dose di disciplina e di sforzo. “In gran parte”, afferma Gotama, “questo mondo è legato ai suoi pregiudizi e alle sue abitudini”. Ma, dice, chi sia pervenuto a tale visione “non viene catturato nelle abitudini, nelle fissazioni e nei pregiudizi o preconcetti della mente. Non è fissato sul proprio io. Non dubita che quando qualcosa accade stia accadendo e che, quando qualcosa è giunto al termine, sia giunto al termine. La sua conoscenza è indipendente dagli altri. In questo senso la sua visione è completa”.
Bisogna notare che il Buddha distingue tra qualcosa ‘che accade’ (uppajjati) o ‘giunge al termine’ (nirujjhati) da un lato, e il suo ‘essere’ (atthi) o ‘non essere’ (natthi), dall’altro. Si trova a suo agio con un linguaggio della processualità ma rifiuta il linguaggio dell’ontologia.
Dire che l’ottuplice sentiero deve essere coltivato (bhavana) significa che deve essere creato e sostenuto di momento in momento. Il sentiero non si estende davanti a noi in tutta la sua lunghezza aspettando che ci incamminiamo per una comoda passeggiata. Richiede una cura e un’applicazione costanti. Ben radicati in una visione che sia il più possibile completa, i praticanti aspirano a pensare, parlare, agire e lavorare in modi che rispondano appropriatamente alle situazioni di vita in cui si vengono a trovare. Questi sono i compiti dei convertiti, di quanti entrano nella corrente, tutti quelli che hanno fatto proprio l’ottuplice sentiero. In quanto tali, i compiti sono espressioni di un impegno profondo a realizzare i valori del risveglio, del dharma e della comunità verso cui nutrono ‘chiara fiducia’. […]
Per chi non pensa più in termini di ‘è’ e ‘non è’, non può esserci una base ontologica per l’etica. Un codice morale legalistico, al contrario, tende a basarsi sul presupposto che le azioni negative abbiano una certa natura intrinseca, mentre quelle positive hanno una natura del tutto diversa. Le persone morali, perciò, seguono le regole disposte in questo codice con la gratificante rassicurazione di sapere che sono ‘rette’. Ma coloro che entrano nella corrente del sentiero diventano ‘indipendenti dagli altri’. Non essendo legati a un codice di condotta concepito da altri, risponderanno in maniera imprevedibile a qualsiasi dilemma morale si trovino a incontrare. E lo faranno con empatia, intelligenza e compassione, senza controllare prima un prontuario di norme morali per vedere cosa sia consentito. Riconosceranno come ogni dilemma morale sorge da un insieme unico di condizioni complesse. La loro etica è perciò più situazionale che legalistica. Sono disposti a intervenire con ciò che considerano la risposta appropriata, pienamente consapevoli che possono sbagliare e peggiorare le cose. Non sono più ‘legati’ da regole morali, ma hanno abbracciato un’etica della cura e del rischio.»
[ Da: Stephen Batchelor, “Dopo il buddhismo. Ripensare il dharma per un’epoca laica“ ]