Il concetto di mindfulness (meditazione), oggi così diffuso, risulta spesso separato dal suo contesto originario, ma la sua vera essenza risiede in una pratica radicata nella compassione e nell’azione concreta. Attraverso un episodio narrato da Stephen Batchelor, scopriamo come il Buddha Gotama abbia dimostrato personalmente l’importanza della cura reciproca, prendendosi cura di un bhikkhu malato trascurato dalla comunità. Questa storia ci invita a riflettere su come la spiritualità non debba essere ridotta a dottrine astratte o pratiche formali, bensì vissuta attraverso atti tangibili di empatia e sostegno.
La sofferenza umana, rappresentata dal dukkha, non è solo un tema teorico su cui meditare, ma una realtà immediata che richiede intervento diretto. Il dharma di Gotama emerge come una guida per affrontare le sfide concrete della vita – dalla malattia all’invecchiamento – senza lasciare alcuno indietro. La mindfulness, ossia la meditazione, pertanto, non è solo uno strumento per alleviare lo stress, ma una porta verso una relazione più autentica con noi stessi e gli altri.
Questo approccio rivela che chi pratica la meditazione sta toccando il nucleo vitale del buddhismo, indipendentemente dalle etichette religiose. La via spirituale è qui ricondotta alla sua dimensione pratica e umana, dove ogni atto di compassione diventa una manifestazione del dharma stesso.
«Il Vinaya pali racconta una storia commovente su come Gotama e il suo attendente Ananda visitarono una comunità di mendicanti [* v. nota], uno dei quali soffriva di dissenteria ma giaceva trascurato tra i suoi stessi escrementi. Quando il Buddha gli chiese perché mai nessuno si prendesse cura di lui, l’uomo rispose che a causa della sua malattia per la comunità egli era ormai inutile. Gotama chiede ad Ananda di andare a prendere dell’acqua in modo da poterlo lavare. Dopo averlo pulito, lo distendono su un letto e vanno in cerca degli altri mendicanti. Il Buddha li redarguisce per aver ignorato il loro fratello malato, poi dice:
Bhikkhu, non avete un padre, non avete una madre che possano occuparsi di voi. Se non vi occupate l’uno dell’altro, chi si occuperà di voi? Chiunque si occupa di me dovrebbe occuparsi dei malati.
Questo importante passo ci mostra tre cose: Gotama si occupa personalmente di offrire assistenza a un mendicante malato che è stato respinto dalla comunità, si identifica con chi è malato e dichiara che coloro che si curano di lui, e cioè di ciò che lui rappresenta, dovrebbero curarsi dei malati. Questo passo va molto oltre il semplice paragonare il Buddha a un medico e il dharma a un ciclo di cure mediche, che è diventato un luogo comune buddhista. Qui troviamo Gotama che si sporca non metaforicamente le mani per prendersi cura di una persona malata. Ciò suggerisce la possibilità che Gotama incoraggiasse attivamente i suoi seguaci a servire come dottori e infermieri, e che la comunità originaria non si occupasse esclusivamente del benessere spirituale, ma anche delle sofferenze reali causate della nascita, la malattia, l’invecchiamento e la morte. Che i mendicanti fossero considerati come medici è rafforzato da un passo nel Vinaya della scuola mulasarvastivada, secondo il quale il re Pasenadi “molte volte scambiò i medici per mendicanti buddhisti a causa dei loro abiti simili”.
L’episodio offre anche un’altra prospettiva sul primo dei quattro compiti. Comprendere la sofferenza significa abbracciare concretamente la condizione di coloro che sono malati considerandoli nello stesso modo in cui si considererebbe il Buddha. Il neonato indifeso, la persona tormentata dalla malattia, l’uomo anziano che non può più prendersi cura di sé, la donna malata terminale che sa che la sua vita sta finendo, queste persone ci rivelano il dharma con la stessa efficacia del Buddha stesso. In presenza di tanta sofferenza, non c’è spazio per riflettere sul termine dukkha o per speculare sulla sua possibile fine. Siamo sfidati a dare una risposta all’immediatezza della situazione in un modo che non è determinato dalla reattività abituale. In questi casi non c’è un modo di parlare o di comportarsi in senso corretto ‘buddhista’. Siamo chiamati a dire o fare qualcosa senza esitazione, proprio come Gotama e Ananda si occuparono immediatamente dei bisogni del mendicante malato.
Sempre più persone oggi si accostano al dharma in seguito all’esperienza diretta dell’efficacia della mindfulness nella cura di varie patologie, e ciò dimostra l’importanza centrale che riveste la cura medica nel dharma di Gotama. Le persone non sono attratte da questa pratica perché sono interessate alla filosofia o alle dottrine buddhiste. L’idea di diventare buddhiste potrebbe essere l’ultimo dei loro pensieri. Hanno trovato una tecnica meditativa che li aiuta a venire a patti con specifici disturbi mentali o fisici. Eppure, invece che svalutare la loro esperienza come il risultato di una pratica laicizzata di mindfulness da cui è stato rimosso il ricco contesto filosofico ed etico del buddhismo, preferirei pensare che essi hanno fatto esperienza del cuore pulsante del dharma, su cui sono stati sovrapposti nel corso dei secoli strati di religiosità, principi morali e credenze.»
* Stephen Batchelor traduce come “mendicante” il termine bhikkhu, a differenza della maggioranza degli altri autori, che utilizza invece la parola “monaco”.
[ Da: Stephen Batchelor, “Dopo il buddhismo. Ripensare il dharma per un’epoca laica” ]