Come si fa ad affermare che un determinato concetto – estrapolato da un particolare contesto narrativo – sia o non sia relativamente assennato? Come si fa a sostenere che una specifica rappresentazione mentale, un’astrazione, un’opinione – desunta approssimativamente da quanto abbiamo, lì per lì, appena letto – sia o non sia foriera d’illuminante saggezza? Forse perché collima – o meno – con le nostre idee antecedenti? Non parliamone poi se l’arguzia (sottigliezza) in questione sia in realtà una metafora celata o sottesa tra le pieghe conclusive del peculiare racconto in questione. Ovvio che non ci riferiamo a storie intriganti inventate con il solo scopo d’intrattenere. Tanto meno a narrazioni elaborate con finalità moraleggianti. Stiamo parlando dei racconti zen, esposizioni formulate con l’intento di creare, lì per lì, un gap razionale tra ciò che si pensa dovrebbe essere un iter narrativo logico e lo scoop del senza senso, dell’incongruo, di quanto non ti saresti mai atteso accadesse. Bene, ma il fine, quale sarebbe? Suscitare stupore, dimodoché il raziocinio abdichi in favore del silenzio, attuare un espediente per causare un temporaneo blackout dialettico durante cui l’impossibile, l’inverosimile divenga la norma, la luce intrinseca illumini, qui e ora, ogni angolo buio della propria stupefatta, sconcertata coscienza. Leggiamo, quindi, a mo’ d’esempio, tre brevi racconti tradizionali, confidando che un lampo di consapevolezza crei d’improvviso una voragine sotto i nostri – pur umili – piedi d’argilla che, ritrovandosi viepiù senza appoggio, non sappiano più dove andare; mentre le nostre – già solide – mani perdano comunque – nel contempo – la facoltà di avvinghiarsi e mollino la presa; dopodiché la mente rinunci all’impulso di giustificare ogni cosa – o appigliarsi un po’ dovunque – e si fermi … a contemplare ciò che non è mai, tantomeno esistito … Ci sommerga infine l’amore e la meditazione sia pertanto possibile.
Chi dona dovrebbe ringraziare
“Quando Seisetsu era maestro di Engaku a Kamakura, ebbe bisogno di ambienti più grandi poiché quelli in cui insegnava erano sovraffollati. Umezu Seibei, un mercante di Edo, decise di donare cinquecento pezzi d’oro, chiamati ryō, per la costruzione di una scuola più spaziosa. Andò dunque a consegnare questo denaro al maestro.
Seisetsu disse: «Va bene. Lo accetterò».
Umezu diede a Seisetsu il sacchetto pieno d’oro, ma rimase insoddisfatto dall’atteggiamento del maestro. Con tre ryō si poteva vivere per un anno intero e per cinquecento ryō il mercante non era neppure stato ringraziato.
«In quel sacchetto ci sono cinquecento ryō» fece notare Umezu.
«Me lo avevi già detto» rispose Seisetsu.
«Anche se sono un ricco mercante, cinquecento ryō sono un mucchio di denaro» disse Umezu.
«Vuoi che io ti ringrazi?» domandò Seisetsu.
«Dovresti farlo» ribatté Umezu.
«Perché dovrei? domandò Seisetsu. — È il donatore che dovrebbe ringraziare».”
La cosa più preziosa al mondo
“Uno studente domandò a Sozan, un maestro cinese di Zen: «Qual è la cosa più preziosa del mondo?».
Il maestro rispose:
«La testa di un gatto morto».
«Perché la testa di un gatto morto è la cosa più preziosa del mondo?» chiese allora lo studente.
Sozan rispose:
«Perché nessuno è in grado di indicarne il prezzo».”
Veri amici
“Molto tempo fa, in Cina vivevano due amici. Uno suonava l’arpa con grande abilità e l’altro ascoltava con altrettanta abilità.
Quando uno suonava o cantava di una montagna, l’altro esclamava: «Vedo la montagna come se l’avessimo davanti a noi».
Quando suonava alludendo a un corso d’acqua, colui che ascoltava esclamava: «Qui c’è l’acqua che scorre!».
Poi però quello che ascoltava si ammalò e morì. L’altro amico tagliò le corde della sua arpa e non suonò mai più. Da allora, tagliare le corde di un’arpa è sempre stato un segno di profonda amicizia.”
[ Da: Paul Reps e Nyogen Senzaki (a cura di), “Carne zen ossa zen“ ]