La compassione autentica non nasce dall’imitazione di un ideale, ma dal coraggio di guardare in faccia ciò che ci rende umani: la nostra capacità di ferire e di restare indifferenti. Questo percorso inizia quando smettiamo di fingere una bontà superficiale e ci permettiamo di esplorare, senza giudizio, gli angoli più oscuri del nostro essere. Attraverso la meditazione e un’attenzione paziente, impariamo a riconoscere il peso della crudeltà interiore, scoprendo che proprio questa consapevolezza ci avvicina alla vera saggezza del cuore. Quando accogliamo il dolore senza costruirci intorno una storia personale, ci apriamo a una comprensione più profonda: la sofferenza esiste, ma chi soffre è un’illusione. In questo spazio di presenza pura, oltre le maschere e le resistenze, troviamo la libertà di essere semplicemente testimoni – vulnerabili, svegli e incredibilmente vivi. La pratica quotidiana del silenzio diventa allora non una fuga dalla realtà, ma un modo radicale di abitarla pienamente, scoprendo che la vera compassione è prima di tutto un atto di verità verso noi stessi.
«La compassione va oltre le regole. Se non abbiamo la fortuna di esserlo già da sempre, come si diventa compassionevoli? Stando con la propria crudeltà, con l’indifferenza, sentendola, contemplandola … Non negare i cosiddetti sentimenti negativi, ma anzi percepire il peso, il sapore, il restringimento dello spazio della coscienza che portano con sé è il primo passo verso la compassione; farsi spazzini del cuore, anziché arredatori di luoghi non visitati, non puliti a fondo, con lo sporco nascosto sotto un impeccabile tappeto.
Chi crede di essere buono è pericoloso. Solo conoscere la propria capacità di nuocere e addestrarsi a non esercitarla può far accedere alla bontà fondamentale, o intelligenza del cuore.»
[Da: Chandra Livia Candiani, “Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione“]
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«Ricevendo il respiro, percependo il suo congiungersi con il soffio universale, si accede al presente, che è assenza di tempo, eterno presente. Assaggiare la dimensione senza tempo ogni giorno, momento per momento, è un affaccio a una dimensione diversa, una diversa sponda, da cui guardare il dolore, fisico o interiore, in una prospettiva più ampia, la vivibilità, anche della morte, e il suo poter essere messaggio celeste.
La sofferenza sentita nella sua orditura senza racconto, nella sua energia liberata dai nomi e dalle attese, rivela che sì, c’è soffrire, ma non c’è colei o colui che soffre. Non c’è racconto, costruzione personale di un io che resiste e intralcia lo scorrere del flusso. Impersonale sofferenza: è un alleggerimento che apre all’avventura del male come conoscenza che lo oltrepassa. Si diventa testimoni, testimoni sensibili, appassionati, la cui unica saggezza è nello stare, abbandonati e svegli, con quello che c’è.»